LA
PENITENZA DI TEODOSIO
Tessalonica
è una città grandissima e molto popolosa, appartenente alla provincia di
Macedonia, ma capitale della Tessaglia, della Acaia e di moltissime
altre province, quante dipendono dal governatore dell’Illiria. Durante
una ribellione verificatasi in quella città, alcuni magistrati furono
percossi e lapidati. L’imperatore, infiammato da questa notizia, non
riuscì a dominare l’impeto della collera, e non ne trattenne la foga
neppure col freno della ragione, ma alla collera si rivolse per
stabilire la punizione. Con un arbitrio tale, quale è quello dispotico e
tiranno che ha spezzato ogni legame e sfugge al giogo della ragione,
snudò la spada ingiusta contro tutti e uccise gli innocenti insieme coi
colpevoli. Settemila uomini infatti, a quanto dicono, furono
assassinati, senza che vi fosse stato prima un processo, senza una
discriminazione rispetto a quelli che avevano osato commettere il
delitto, come nella mietitura si tagliano insieme tutte le spighe.
Ambrogio venne a conoscenza di questa tragedia carica di gemiti.
Quando
l’imperatore giunse a Milano e volle entrare, come al solito, nel tempio
di Dio, gli andò incontro fuori dal protiro e gli impedì di entrare
sotto i portici della chiesa con queste parole: «A quanto pare tu
ignori, o imperatore, la gravita dell’omicidio che hai commesso, né,
cessata la collera, la ragione ha riconosciuto la tua temerarietà; forse
la potenza imperiale non permette di riconoscere la colpa, e il potere
acceca la ragione. Bisogna tuttavia che tu consideri la nostra natura,
il fatto che è mortale e transeunte, e la polvere originaria da cui
siamo nati e a cui ci avviamo a ritornare; e che non ignori, tratto in
inganno dallo splendore della veste di porpora, la debolezza del corpo
che vi è celato. Tu governi, imperatore, su persone della tua stessa
natura, anzi su compagni di schiavitù; infatti il solo Signore e sovrano
di tutti è il Creatore dell’universo. Con quali occhi, dunque, guarderai
il tempio del comune Signore? Con quali piedi calpesterai quel suolo
santo? Come tenderai le mani ancora gocciolanti del sangue dell’iniquo
assassinio? Come riceverai il sangue prezioso nella tua bocca, che, con
le parole dettate dalla collera, ha fatto versare tanto sangue
ingiustamente? Vattene dunque, e non osare aggiungere altre iniquità
alla prima; accetta il legame, a cui consente dall’alto Dio, il Signore
dell’universo: ti guarisca e ti procuri la salute».
A queste
parole l’imperatore si ritirò (allevato negli insegnamenti divini,
infatti, conosceva chiaramente che cosa fosse prerogativa dei sacerdoti,
e che cosa degli imperatori) e, gemendo e piangendo, ritornò al palazzo.
Molto tempo dopo (erano trascorsi infatti otto mesi) ricorse la festa
del Natale del nostro Salvatore; l’imperatore se ne stava a gemere nella
reggia, versando torrenti di lacrime. Vedendo ciò Rufino (era allora
maestro di palazzo e godeva di molta libertà di parola perché era
familiare dell’imperatore) si fece avanti e chiese il motivo delle
lacrime. Egli gemette amaramente e versò ancora più lacrime, dicendo:
«Tu sì, Rufino, che puoi rallegrarti: infatti non soffri i miei mali. Ma
io gemo e mi lamento per la mia sventura, pensando che il tempio divino
è aperto ai servi e ai mendicanti, ed essi vi entrano senza timore e vi
incontrano il loro Signore, mentre a me il tempio è inaccessibile e,
oltre a ciò, il cielo mi è chiuso. Ricordo infatti la voce del Signore
che dice chiaramente: Ciò che legherete sulla terra sarà legato nei
cieli»[2].
E quegli: «Se credi, correrò dal vescovo e cercherò di persuaderlo con
suppliche insistenti a scioglierti dai legami». «Non si lascerà
persuadere, rispose l’imperatore, so infatti che la decisione di
Ambrogio è giusta e che egli non infrangerà la legge divina per rispetto
al potere imperiale». Poiché Rufino con molte altre parole gli promise
di cercare di convincere Ambrogio, l’imperatore lo esortò ad
affrettarsi; ed egli stesso, ingannato dalla speranza, lo seguì poco
dopo, fidando nelle promesse di Rufino. Ma appena il divino Ambrogio
vide Rufino, disse: «Tu imiti l’impudenza dei cani, Rufino. Tu, che sei
stato consigliere di un così grave assassinio, hai cancellato la
vergogna dal volto e non arrossisci né temi, mentre tanto hai infuriato
contro l’immagine di Dio». Dopo che Rufino gli si fece innanzi e
annunciò che l’imperatore era in arrivo, infiammato da divino zelo,
Ambrogio, l’ispirato da Dio, esclamò: «Io, Rufino, ti preavviso che gli
impedirò di varcare la soglia della chiesa; e, se vuoi mutare l’impero
in tirannide, riceverò anch’io con piacere la morte». Udito ciò, Rufino
fece sapere per mezzo di un messaggero all’imperatore l’intenzione del
vescovo e gli consigliò di restare nel palazzo.
L’imperatore apprese questa notizia in mezzo alla piazza: «Vado, disse,
e accetterò i giusti oltraggi». Quando però raggiunse il recinto del
santuario, non entrò nel tempio di Dio, ma, presentandosi al vescovo
(costui sedeva nella sala di ricevimento), lo supplicò di scioglierlo
dal legame. Ma questi tacciò di tirannia la sua intrusione e affermò che
Teodosio si comportava come un pazzo contro Dio e calpestava le sue
leggi. L’imperatore rispose: «Io non disprezzo le leggi stabilite, né
cerco di penetrare ingiustamente nel tempio, ma ti supplico di
sciogliermi dai legami, di considerare la bontà del comune Signore e di
non chiudere a me la porta che il Signore ha aperto a tutti quelli che
si pentono». E il vescovo: «Quale pentimento hai dunque dimostrato dopo
una così grave iniquità? Con quali rimedi hai curato le ferite difficili
da guarire?». «È tuo compito, rispose l’imperatore, mostrare e dosare i
rimedi, mio invece accogliere quanto proponi». Allora il divino Ambrogio
disse: «Poiché tu rimetti il giudizio alla collera, e non la ragione ma
la collera emette la sentenza, scrivi una legge che dichiari vane ed
inefficaci le decisioni dettate dalla collera. E le sentenze riguardanti
una pena di morte o una confisca restino in attesa di applicazione per
trenta giorni, per ricevere il giudizio della ragione. Trascorso questo
tempo, coloro che hanno messo per iscritto la sentenza mostrino il
decreto. Allora, cessata la collera, la ragione, giudicando da sé,
esaminerà la sentenza, e vedrà se è giusta o ingiusta. E se la troverà
ingiusta, è chiaro che distruggerà quanto è stato scritto; se la troverà
giusta, la confermerà, e il numero dei giorni non danneggerà la retta
sentenza». L’imperatore accolse questa proposta e, sembrandogli ottima,
ordinò che la legge fosse subito scritta e la confermò con la propria
firma. Dopo di che il divino Ambrogio sciolse il legame.
Così
l’imperatore dalla profonda fede osò penetrare nel tempio di Dio, e non
supplicò il Signore stando ritto, né piegando i ginocchi, ma giacendo
prono sul pavimento pronunciò queste parole di David: L’anima mia è
prostrata al suolo, dammi vita secondo la tua parola[3],
strappandosi con le mani i capelli, percotendosi il volto e bagnando il
suolo con le gocce delle sue lacrime, pregava per ottenere il perdono.
Quando poi giunse il momento di portare le offerte alla sacra mensa,
levatosi, sempre piangendo entrò nel presbiterio; fatta l’offerta, come
soleva, restò all’interno, oltre i cancelli. Ma di nuovo il grande
Ambrogio non tacque, bensì gli insegnò la differenza dei posti nella
chiesa. Anzitutto gli chiese che cosa volesse; avendogli l’imperatore
risposto che attendeva di partecipare ai misteri divini, gli comunicò
per mezzo del primo diacono: «Il presbiterio, o imperatore, è
accessibile solo ai sacerdoti, per tutti gli altri è inaccessibile e
inviolabile; esci dunque, e prendi posto insieme con gli altri; la
porpora rende imperatori, non preti». L’imperatore molto credente
accolse di buon grado questo invito e rispose che non si era soffermato
all’interno dei cancelli per temerarietà, ma perché aveva appreso questo
uso a Costantinopoli: «Ti sono grato, disse, anche di questa medicina».
Di tale e
così grande virtù rifulsero il vescovo e l’imperatore: entrambi infatti
io ammiro, l’uno per la sua libertà di parola, l’altro per la sua
umiltà, l’uno per l’ardore del suo zelo, l’altro per la purezza della
sua fede. E queste norme religiose, che aveva appreso dal grande
vescovo, le praticò anche dopo il ritorno a Costantinopoli. Infatti,
avendolo una festa religiosa indotto a recarsi di nuovo al tempio di
Dio, dopo aver portato le offerte alla sacra mensa, subito tornò
indietro; e quando il vescovo della chiesa (era allora Nettario) gli
domandò: «Perché mai non sei rimasto dentro?», rispose sdegnato: «Con
fatica ho imparato la differenza tra imperatore e sacerdote, con fatica
infatti trovai un maestro di verità. So che Ambrogio soltanto è degno di
essere chiamato vescovo».
Trad. di M. Morani e G. Regoliosi
[1] 5, 17.
[2] Cfr. Matteo
16, 19 e 18, 18.
[3] Salmo 118,
25
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