venerdì 11 novembre 2022

Sacerdoti del Patriarcato di Mosca contro la guerra





Ovviamente non si poteva non pubblicare in un blog dedicato ai Padri e alle Madri della Chiesa 


testo in Inglese. al paragrafo PRIESTS AGAINST THE WAR

https://www.wheeljournal.com/blog/2022/10/15/xenia-loutchenko-church-mobilized

Andrei Shishkov, ricercatore presso la Facoltà di Teologia e Studi Religiosi dell'Università di Tartu, ritiene che i sacerdoti, i vescovi e i monaci ortodossi russi che benedicono la guerra si dividano in due categorie nel loro atteggiamento verso gli eventi: "i cinici e i ciechi. I primi sanno di servire il male, ma lo fanno in cambio di vari vantaggi per loro stessi. I secondi non sanno dove stanno andando e stanno conducendo la gente verso l'abisso". Ma, secondo Shishkov, c'è un terzo e più numeroso gruppo di pastori, quelli "che pensano di avere la coscienza pulita perché non benedicono nessuno per la guerra, anzi pregano per la pace. Ma in realtà questi pastori contribuiscono a normalizzare il male. Contribuiscono ad accettare con obbedienza tutto ciò che viene dalle autorità senza legge". Sono di fatto la maggioranza nella Chiesa ortodossa russa. Ciò corrisponde anche alla divisione della società russa nel suo complesso: ci sono i cinici - funzionari pubblici, politici e operatori della propaganda che traggono profitto dalla guerra, i veri "patrioti", che non sono molti ma che sono molto attivi, fortemente ideologizzati, persino ossessionati e sostengono la guerra con l'azione, e una massa enorme che è "al di fuori della politica" e generalmente "a favore della pace", ma inattiva e silenziosa. La mobilitazione sta minando questo costrutto, poiché coloro che sono "fuori dalla politica" vengono ora trascinati in politica letteralmente sotto la minaccia della morte, ma le conseguenze sono ancora da vedere. 

Ma sia nella società che nel clero c'è un altro piccolo gruppo: coloro che si oppongono alla guerra e rischiano di cadere sotto la macchina repressiva dello Stato. E nel caso del clero, si tratta di una doppia minaccia: rischiano rappresaglie sia all'interno della chiesa sia da parte delle forze dell'ordine.


Dopo lo scoppio della guerra, il sacerdote Ioann Burdin, rettore della Chiesa della Resurrezione nella regione di Kostroma, ha tenuto un sermone contro la guerra che è stato ascoltato da dieci persone. Una di queste informò la polizia e il sacerdote fu perseguito in base a un articolo che prevedeva il discredito delle Forze Armate della Federazione Russa. È stato multato, ma la Chiesa ortodossa russa è stata più brutale del tribunale russo. Ha privato padre Burdin della sua parrocchia e lo ha espulso dal ministero. Il sacerdote di Kirov Dmitry Baev è stato inserito nella lista dei ricercati federali per aver pubblicato "informazioni consapevolmente false sull'uso delle Forze Armate russe per proteggere gli interessi della Federazione Russa e dei suoi cittadini". Il metropolita Mark di Vyatka lo ha bandito dal servizio e processato davanti alla Chiesa. L'ex sacerdote ha lasciato la Russia. Nel suo sermone pasquale, padre Maksim Nagibin di Krasnodar aveva definito la guerra in Ucraina un crimine e una "grande disgrazia", dopodiché è stato accusato e si è aperto un caso "per aver screditato l'esercito". Anche il protodiacono Andrey Kuraev, che si oppone al Patriarca Kirill, è stato accusato di aver fatto dichiarazioni contro la guerra. Ora rischia l'arresto. 


All'inizio di marzo, poco dopo l'inizio dell'invasione russa dell'Ucraina, quasi 300 ecclesiastici della Chiesa ortodossa russa hanno firmato una lettera aperta contro la guerra. "Rispettiamo la libertà divina data agli uomini e crediamo che il popolo ucraino debba prendere la propria decisione, non sotto la canna delle armi automatiche e senza pressioni da parte dell'Occidente o dell'Oriente", si leggeva nella lettera, che si concludeva con "Fermate la guerra!". Questi 300 firmatari sono davvero coraggiosi. È noto che i servizi di sicurezza russi hanno manifestato interesse per molti sacerdoti che hanno firmato lettere aperte in passato (la più famosa nel 2019 in difesa dei prigionieri del cosiddetto "caso Mosca", quelli arrestati durante le manifestazioni di protesta che chiedevano elezioni regolari per la Duma di Mosca). Sono stati convocati per colloqui con l'FSB e hanno trasmesso le minacce attraverso i vescovi. Per i sacerdoti di provincia le conseguenze potrebbero essere catastrofiche. Lo stesso è accaduto ad alcuni dei firmatari della lettera contro la guerra. La prima firma su questa lettera appartiene all'egumeno Arseniy (Sokolov). Alla fine di marzo, egli fece alcune annotazioni nel suo canale Telegram: "Guai a coloro che chiamano la guerra fratricida una misura di mantenimento della pace!", "Pregare "alla gloria della Russia" o di qualsiasi altro Paese (e non alla gloria di Dio) è pura idolatria", "La patria è ammassata in un campo di prigionia. [...] Cosa saremo noi, pastori della Chiesa, in questo campo? Prigionieri o guardie?". Il canale Telegram è stato chiuso un giorno dopo e l'egumeno Arseniy è stato rimosso dalla sua posizione di rappresentante del Patriarca di Mosca presso il Patriarcato di Antiochia e richiamato a Mosca.


Un padre portò suo figlio da un sacerdote vicino a Mosca e chiese la sua benedizione "per andare a difendere la patria". Il sacerdote rispose che non poteva dare la sua benedizione perché "questa guerra è ingiusta, noi stessi abbiamo invaso il territorio di un Paese straniero". L'unica benedizione che poteva impartire era quella di "non essere crudeli e rimanere umani". Questo sacerdote ha detto amaramente che non poteva dire direttamente che era meglio evadere e andare in prigione o fuggire in un altro Paese che essere colpevole della morte di qualcun altro e morire, perché questo padre e suo figlio erano estranei a lui e potevano denunciarlo.


L'arciprete Andrei Kordochkin, che presta servizio presso la chiesa ortodossa di Santa Maria Maddalena a Madrid, si è apertamente opposto all'invasione russa dell'Ucraina fin dall'inizio della guerra e ha criticato direttamente il presidente Putin. Il "mondo russo" è una dottrina non solo sbagliata ma anche pericolosa. In relazione all'Ucraina, suona così: "Voi come popolo non esistete, la vostra statualità è un equivoco, e poiché noi siamo voi, decideremo il vostro futuro per voi". Poiché questo obiettivo è irraggiungibile nella realtà, è impossibile vincere la guerra. Anche se vediamo la soppressione della resistenza in Ucraina, strategicamente la guerra è già persa e non c'è modo di lavare via la vergogna", ha detto a Deutsche Welle. Alla fine di agosto, è stato licenziato dal suo incarico di segretario della diocesi ispano-portoghese della Chiesa ortodossa russa, una punizione che finora sembra molto clemente. Tuttavia, il sacerdote non è rimasto in silenzio e continua a testimoniare contro la guerra. Recentemente ha pubblicato il testo di una "Preghiera del popolo addolorato" che aveva scritto. Vi si legge, ad esempio: "I nostri principi conducono i nostri uomini e giovani come pecore al macello, ma hanno pietà e compassione dei loro stessi figli. Come tu stesso, Signore, sei fuggito in Egitto dalla mano dell'onnipotente Erode, del giusto Giuseppe e della tua purissima madre, così ora i nostri uomini e i nostri giovani fuggono nelle terre della Georgia, del Kazakistan, in tutte le terre dal sorgere del sole al suo tramonto (Sal 112,3) e fino ai confini della terra". Il livello teologico e letterario di questo testo supera di gran lunga le "Preghiere per le guerre russe" recitate dal clero patriottico.


I sette mesi trascorsi dall'inizio della guerra hanno dimostrato che la Chiesa si è effettivamente "mobilitata". È una propagandista volontaria, si è messa volontariamente a disposizione dello Stato e reprime ogni opinione dissenziente al suo interno mostrandosi solidale con l'apparato repressivo statale. In cambio, riceve bonus sotto forma di sovvenzioni presidenziali e varie forme di sostegno indiretto, anche se non costa al Paese quanto le stazioni televisive e altre risorse mediatiche. Allo stesso tempo, l'umore e le opinioni del clero, in media, riflettono la distribuzione delle posizioni all'interno della società russa e del suo gregge. Tuttavia, a differenza dei loro parrocchiani, i chierici che la pensano diversamente non possono lasciare la Russia, per evitare la persecuzione e l'arruolamento - non ci sono preti che "lavorano da casa". Possono solo rimanere e aspettare, insieme a tutti gli altri, una risoluzione dalla quale è improbabile che la Chiesa ortodossa russa esca indenne.




Tradotto con www.DeepL.com/Translator (versione gratuita)






mercoledì 9 novembre 2022

Contro l'ipocrisia di ogni pacifismo di potere:-La fine rivoluzionaria di questa guerra criminale avverrà quando i combattenti si ribelleranno, insieme, alla sofferenza.

 




Premessa 

Io non so e non mi interessa sapere se Domenico Quirico  editoriaiista della Stampa  sia credente (e nello specifico sia cristiano) o  lo non sia  Ma per quel che ha scritto  non posso non pubblicare la sua riflessione sul   blog Padri della Chiesa.

Tale riflessione inchioda alla loro ipocrita melina a centrocampo  tutta la galassia pacifista con l'osservazione  che sta dentro l'energia della riflessione che chiedere il negoziato, la trattativa  è solo fumo e fumo per i propri interessi in Italiae nel pianeta , sia quelli enormi del governo, della presunta opposizione ,del gruppo Leonardo. ma anche quelli più miseri di chi va in televisione a profetizzare in un senso o nell'altro e poi. promuove il suo libro.

***

La riflessione citata da Marco Verruggio sul quotidiano on line 

https://www.glistatigenerali.com/geopolitica/letture-la-verra-guerra-mondiale-quella-tra-oligarchie-e-proletari/ 


La fine rivoluzionaria di questa guerra criminale avverrà quando i combattenti si ribelleranno, insieme, alla sofferenza. Sono loro che gettando contemporaneamente i fucili possono rompere il cerchio dei pregiudizi, degli interessi, dei simboli vani, delle bugie. Sono loro che rifiutando di combattere spazzeranno, con il soffio del loro possente respiro di vittime, di sacrificati, il cerchio degli interessi che a Mosca e a Kiev non sono i loro.

E, cogliendo il vero punto debole del pur coraggioso pacifismo cattolico, osservava pungente che

Papa Francesco, come il suo predecessore che, durante la Prima guerra mondiale invocò invano re e presidenti perché fermassero l’inutile strage, sbaglia i destinatari dei vibranti, sempre più sconsolati, appelli alla pace. Non sono Putin e Zelensky, o Biden, che possono spezzare il cappio della guerra. Gli uomini di buona volontà a cui deve rivolgersi, scavalcando, ignorando i capi, sono gli uomini disperati, sporchi, esausti, straziati delle trincee. Il popolo della guerra."

lunedì 7 novembre 2022

Don Corrado Lorefice Vescovo di Palermo" Siamo responsabili delle vite sulle navi Ong"

Ed è doverosa  personale scelta inserire questa omelia  nel blog  dei testi dei Padri e delle Madri della Chiesa


https://palermo.repubblica.it/cronaca/2022/11/06/news/accoglienza_migranti_lorefice_palermo-373119917/


c'è un'Europa che dimentica di avere precise responsabilità e un'Italia che si volta dall'altra parte. La legge del mare dice altro, se qualcuno è in pericolo dobbiamo salvarlo. Mentre si continua a perdere tempo ci sono uomini, donne, bambini, in balia del meteo. Questa è mancanza di civiltà".


"Il mio cuore è ferito per la direzione che questo Paese sta prendendo. Il governo discute inutilmente sul fatto che le imbarcazioni battano questa o quell'altra bandiera. Su quelle navi ci sono vite di cui siamo responsabili, perché fanno parte dell'unica famiglia umana. Dobbiamo smetterla con la teoria dei "nostri o loro". La dobbiamo smettere di essere i soliti Calimero. Per questo ho voluto fortemente utilizzare quelle parole. Se ieri Sagunto era Palermo, oggi è il Mediterraneo. E bisogna dirlo perché l'attuale situazione fa paura"


Domande che vorrei porre a tutti: sappiamo in Libia che ci sono i lager? Sappiamo che stiamo foraggiando le cosiddette vedette libiche che hanno l'ordine di sparare alle imbarcazioni? Siamo consapevoli, noi occidentali, di adeguarci sempre più a una mentalità che poco ha a che vedere con il concetto di umanità? 


"Temo che si faccia propaganda politica a basso prezzo sulla pelle della povera gente, come è già successo in passato. C'è una visione molto gretta, si continua a dire che queste persone sono quelle che ci impoveriscono e che rubano il nostro lavoro. La storia si ripete. Fatti che abbiamo già visto stanno di nuovo accadendo sotto i nostri occhi".

domenica 6 novembre 2022

Don Corrado Lorefice Vescovo di Palermo :nel Mar Mediterraneo, dinanzi all’indifferenza e all’ipocrisia dei paesi europei: la vergogna dei naufragi, dei bimbi e delle donne annegati, dei respingimenti e delle torture nei lager della Libia”

Ed è doverosa  personale scelta inserire questa omelia  nel blog  dei testi dei Padri e delle Madri della Chiesa. 



https://stampa.chiesadipalermo.it/un-incontro-di-preghiera-per-la-pace-condiviso-da-tutte-le-donne-e-tutti-gli-uomini-di-buona-volonta/


L’Arcivescovo Corrado ha pregato per la Pace insieme a centinaia di donne e uomini di buona volontà riuniti nella basilica di San Domenico. “Non dimentichiamo che una delle tante tragiche conseguenze delle guerre in atto nel mondo continua a consumarsi nel Mar Mediterraneo, dinanzi all’indifferenza e all’ipocrisia dei paesi europei: la vergogna dei naufragi, dei bimbi e delle donne annegati, dei respingimenti e delle torture nei lager della Libia”


 Non possiamo cominciare se non ascoltando il grido che sale dalle vittime e dalle macerie di ogni guerra, di questa nefasta e assurda guerra che è arrivata non improvvisamente, ma è stata preparata dall’individualismo estremo (qualcuno ha parlato di ‘singolarismo’) seminato da un’economia del profitto che genera “inequità” (Papa Francesco), scarti umani, degrado ambientale e sovvertimento climatico, causa di nuove povertà. Non dimentichiamo che una delle tante tragiche conseguenze delle guerre in atto nel mondo continua a consumarsi nel Mar Mediterraneo, dinanzi all’indifferenza e all’ipocrisia dei paesi europei: la vergogna dei naufragi, dei bimbi e delle donne annegati, dei respingimenti e delle torture nei lager della Libia. Essere oranti significa per noi stasera rimanere accanto a questo dolore muto e immenso, a questa umanità schiacciata e senza voce in ogni Sud del mondo, che viene ferocemente respinta quando, in un numero davvero limitato, simile alla punta di un iceberg, si affaccia alle nostre coste, alle nostre terre, trovando ad accoglierla la retorica stanca e catastrofica della sicurezza, dell’identità, della distinzione tra ‘noi’ e ‘loro’


Nei corpi si imprime insomma il sigillo della ‘mancanza’ che genera violenza, che rende ammissibile, praticabile la guerra. Ma solo i corpi possono resistere. Solo ai corpi possiamo fare appello, perché nei corpi abitano le energie più profonde e curative delle ferite del creato. Il nostro compito di costruttori di pace, la nostra via di donne e uomini della pace è in fondo quella di non far sparire dalla terra il canto dolce dei corpi che amano e sono amati. Nell’inferno che viviamo, dobbiamo ricordare a tutti che nel cuore dell’uomo esiste la voglia di amare ed essere amato. Forse il nostro compito è quello di dire a ogni madre e a ogni padre: ama tuo figlio, amalo nella verità, nella pienezza, amalo tanto che il suo corpo diventi corpo d’amore. Ricordare che dove i corpi si mettono assieme per agire sulla società, per rappresentare le istanze altrui, per costruire ‘corpi intermedi’ lì si piantano i semi di una logica della mediazione opposta alla logica della guerra. Ricordare che dove i corpi si riconoscono e dialogano, a partire dalla loro verità, dai loro miti, dai loro racconti, ascoltati e rispettati, lì la guerra è impossibile. Le carezze materne e paterne, le strutture intermedie umane, il dialogo tra i popoli, il dialogo tra le religioni costruiscono le premesse di un mondo nuovo che continuiamo a sperare, a sperare contro ogni speranza, e che continuiamo a ricordare. Il monte alto di Isaia, la città della pace è la nostra patria, non i campi di battaglia. Il suono degli uccelli e dei canti di amore ci appartengono e non il suono delle sirene, non il boato, il fragore delle armi.

sabato 5 novembre 2022

Humanity a sei miglia da Catania: "Notte da incubo a bordo". --e Don Corrado Lorefice Vescovo di Palermo

Durissimo l'arcivescovo di Palermo Lorefice che evoca la storica omelia del cardinale Pappalardo dopo l'omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. E oggi come allora esordisce dicendo: "Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata". Se ieri Sagunto era Palermo, oggi è il Mediterraneo. E su quelle navi - dice Lorefice - "ci sono vite, di cui siamo responsabili, perché fanno parte dell'unica famiglia dell'essere umano e perché scappano da ciò che noi occidentali abbiamo ipocritamente creato nei loro Paesi: guerra, fame e cambiamenti climatici. La storia ancora una volta si ripete, fatti che abbiamo già visto stanno di nuovo accadendo sotto i nostri occhi".

https://palermo.repubblica.it/cronaca/2022/11/05/news/humanity_davanti_a_catania_non_potra_sbarcare_riseabove_verso_siracusa_allarme_per_8_neonati-373007525/



domenica 9 ottobre 2022

A 71 anni ho iniziato a leggerlo -Il “De senectute ” di papa Francesco





Hanno pagato «il prezzo più alto» non solo a causa della pandemia, ma anche di una cultura della produttività che li considera troppo spesso un peso. Ma gli anziani, secondo il papa, sono invece «una benedizione per la società». Con diciotto catechesi qui raccolte per la prima volta Francesco ha sviluppato un nuovo importante percorso di riflessione interamente dedicato al senso e al valore della vecchiaia attraverso la parola di Dio, da Genesi ai Vangeli, per spiegarne la ricchezza e trasmettere «saggezza all'umanità». Quello del pontefice è un autentico appello alla riscoperta dell'arte di invecchiare. Perché non può essere solo una questione di «piani di assistenza», ma di «progetti di esistenza» per un'età della pienezza e dell'apporto gioioso. Al centro di queste «lezioni» è il rapporto intergenerazionale, una questione di primo piano in quest'epoca segnata dal calo demografico. Gli anziani sono «un vero e proprio nuovo popolo», osserva il papa, «mai siamo stati così numerosi nella storia umana», eppure «il rischio di essere scartati è ancora più frequente». Ma non ci si può limitare al cambiamento quantitativo, è in gioco «l'unità delle età della vita», ossia «il reale punto di riferimento per la comprensione e l'apprezzamento della vita umana nella sua interezza». Il nuovo libro del pontefice è accompagnato dai suoi più rilevanti interventi sul tema e presentato da Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita, che delinea un vero e proprio itinerario storico e culturale nel valore della vecchiaia.


Il libro “La lunga vita. Lezioni sulla vecchiaia”, edito da Solferino editore, raccoglie le catechesi di Papa Francesco sul tema della vecchiaia. L’attenzione di Papa Francesco al tema è nota e nasce dalla preoccupazione di dare una lettura spirituale alla vecchiaia. Corredano il libro alcuni altri interventi sull’argomento e i due messaggi in occasione della Giornata Mondiale dei nonni e degli anziani, che a partire dal 2021 il Papa ha voluto istituire nella quarta domenica di luglio.  Le catechesi pubblicate propongono una narrazione della vecchiaia fuori dagli schemi che racconta questa stagione della vita come un tempo di grazia. Spesso si descrive la vita degli anziani insistendo sui lati negativi, sui problemi che derivano dalla malattia e dalla crescente fragilità, senza cogliere il carisma degli anziani. Nelle sue catechesi Papa Francesco rilancia il tema dell’alleanza tra generazioni, che trova fondamento anche in tanti passaggi della Bibbia. Tante figure di anziani nella Bibbia, come Noè e Mosè, insegnano il valore di spendere la propria vita anche per offrire futuro alle generazioni più giovani.

Gli anziani Simeone e Anna attendono la venuta del Signore e tra i primi lo riconoscono in una vita appena nata. Anche l’alleanza tra l’anziana Rut e la giovane Noemi insegna la forza dell’aiuto vicendevole da cui tutti traggono vantaggio e un solido insegnamento di vita. Tra i tanti temi affrontati anche quello del dubbio e dello spaesamento che può cogliere chi è avanti negli anni, specialmente se provato nella malattia. Giobbe insegna la via dell’affidarsi al dialogo con Dio anche nel tempo del dubbio. Gli anziani hanno dunque il carisma della testimonianza e ci insegnano ad amare la vita anche nei momenti più difficili. Le catechesi di Papa Francesco affidano agli anziani una missione: “essere luce per gli altri”. Nello stesso tempo insegnano ai giovani a cercare l’incontro con chi è avanti negli anni e ancora ha tanto da offrire in termini di insegnamento e affetto.





sabato 8 ottobre 2022

don Roberto Sardelli, prete che lottava tra gli ultimi-UN PRETE TRA LE BARACCHE

Don Roberto Sardelli nelle baracche dell'Acquedotto Felice 1970

https://it.wikipedia.org/wiki/Roberto_Sardelli





Per anni aveva vissuto insieme ai baraccati dell’Acquedotto Felice, quando i migranti poveri e senza casa venivano da altre regioni italiane. Al riparo di quelle pietre antiche e nel pieno dell’onda del ’68 aveva creato la Scuola 725, per aiutare i figli dei più poveri a uscire dall’emarginazione attraverso lo studio

«Il luogo dove viviamo è un inferno. L’acqua nessuno può averla in casa. La luce illumina solo un quarto dell’Acquedotto. Dove c’è la scuola si va avanti con il gas. L’umidità ci tiene compagnia per tutto l’inverno. Il caldo soffocante l’estate. I pozzi neri si trovano a pochi metri dalle nostre cosiddette abitazioni. Tutto il quartiere viene a scaricare ogni genere di immondizie a 100 metri dalle baracche. Siamo in continuo pericolo di malattie. Quest’anno all’Acquedotto due bambini sono morti per malattie, come la broncopolmonite, che nelle baracche trovano l’ambiente più favorevole per svilupparsi.»
(Scuola 725: lettera al sindaco, Roma, 1968)


37 anni dopo, sempre insieme agli ormai ex bambini dell’Acquedotto Felice, scrive ‘Per continuare a non tacere’, una seconda lettera indirizzata all’allora sindaco della città, Walter Veltroni. “Un governo locale democratico non può assistere rassegnato alla divisione tra i cittadini in ragione del censo” scriveva ormai oltre 10 anni fa. "E' urgente invertire la rotta".


Per commentare l'incontro con Veltroni Wikipedia declara " Nell'estate del 2007 anche l'allora sindaco Walter Veltroni accolse in Campidoglio don Roberto Sardelli e il neonato Gruppo Non Tacere. Tuttavia il colloquio si risolse in un nulla di fatto, a causa della divergenza di idee rispetto al problema delle periferie romane e alla visione della politica come bene comune da costruire dal basso


DON SARDELLI. LETTERA AI CRISTIANI DI ROMA

http://www.gruppolatenda.org/downloads/prima-serie/La%20Tenda%20n°%20048.pdf




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Tra il 1936 e il 1973 circa 650 famiglie immigrate dal sud Italia vissero all’interno di baracche di fortuna costruite tra un arco e l’altro dell’Acquedotto Felice nel quartiere Appio Claudio a Sud-Est di Roma.

Il 4 novembre del 1969 don Roberto Sardelli acquistò una baracca, da una prostituta, lungo gli archi dell’acquedotto. In quel ricovero fondò la “Scuola 725” dove fece studiare i bambini, figli dei baraccati, che alla scuola elementare “Salvo D’Acquisto” venivano spesso messi nelle classi differenziali.

Don Roberto aveva capito che in quella situazione di forte disagio sociale i bambini erano i più colpiti. Per loro c’era solo una scolarizzazione sommaria o del tutto assente. Per superare l’emarginazione che derivava da quel contesto organizzò un doposcuola proprio all’interno delle baracche, dando a quei ragazzi un’arma potentissima di riscatto sociale.

Nel 1973 il borghetto venne sgomberato, ma l’impegno di don Roberto non finì così. Continuò a lottare al fianco di rom, malati di Aids e insieme alle comunità cristiane di base. Ancora tra gli ultimi, in cerca di un riscatto collettivo.


Nel 2010 l’associazione “Primavera romana” decise di dare seguito all’impegno preso con don Roberto Sardelli di apporre una targa all’Acquedotto Felice in ricordo delle baracche e a testimonianza del diritto all’abitare. La targa era stata richiesta da dieci anni al Municipio X e mai ottenuta. Venne scolpita e posata nel parco il 31 ottobre 2010. La targa è stata rimossa dall’amministrazione perché posata senza autorizzazione.

Scriveva in quell’occasione don Roberto:

«La decisione di “Primavera romana” di apporre una targa sulle mura dell’Acquedotto Felice è il compimento di un doveroso ricordo che invano, da una decina d’anni, s’è chiesto alle autorità territoriali. Sotto quegli archi, che in quel punto si snodano parallelamente all’Acquedotto dell’Appio Claudio, oggi si è organizzato uno dei più suggestivi e grandiosi parchi, quello “degli Acquedotti”. Ma fino al 1973 quello è stato il luogo dove il popolo dei migranti italiani aveva trovato un riparo: partendo dalle povere campagne del meridione ci si era spinti verso la grande città. Attratti dal boom edilizio si trovò lavoro, ma le istituzioni, gli speculatori, i residenti in genere videro nella manovalanza solo le braccia, non le persone. Non si pensava nemmeno che quelle persone portavano con sé intere famiglie, si portavano dietro il carico di una cultura, delle speranze e delle attese. Non passava nemmeno nell’anticamera del cervello che quelle famiglie erano portatrici dei più elementari dei diritti, quello ad un’abitazione decente, alla salute, alla scuola, ad essere accolti con dignità. Manodopera, solo manodopera! Sull’Acquedotto “infelice” calò un muro di freddezza, di isolamento, di espulsione dalla vita della città. Questa voleva braccia, non voleva persone. La storia, questa storia, sembra non aver insegnato nulla. E la storia, quella storia, si replica, quintuplicata, sotto i nostri occhi. Son passati 50 anni, ma oggi come ieri sento parlare di “sgomberi”. E quando vengono eseguiti, oggi come allora, ce se ne fa un vanto. La vergogna diventa titolo di merito! Forse, anche una letteratura, quella pasoliniana, servì allora per cucirci addosso lo stereotipo dei “brutti, sporchi e cattivi”, dei “ragazzi di vita”, un’immagine di comodo letterario, dove ciascuno poteva “pascolare” a suo piacimento. Ma sotto quegli archi, per chi non ci passava, ma ci viveva, c’era una umanità afflitta che la sofferenza non piegò, c’erano persone capaci di relazioni, di fiducia, di tolleranza, di accoglienza e mai smaniosa di sicurezze che produttrici di margini, esclusioni, strumentalizzazioni dell’uomo. Quaranta anni dopo dal 1973 i ragazzi di quel luogo “famigerato” si sono incontrati ed ecco come hanno guardato a quell’esperienza, altro che “ragazzi di vita”! “Abitavamo nelle baracche dell’Acquedotto Felice, un tugurio di miseria dove viveva un’umanità che le istituzioni e i cittadini avevano lasciato fuori delle mura della città. Eravamo ragazzi e ragazze: mentre alcuni frequentavano la scuola pubblica, altri erano già sul mercato del lavoro e, espropriati della loro età e della scuola, facevano l’esperienza dello sfruttamento. La città era assente. Noi, spinti dai genitori, frequentavamo la scuola, ma molti, classificati “caratteriali”, finivano nelle classi “differenziali”; tutti, a causa delle condizioni in cui vivevamo, giornalmente subivamo offese ed espliciti “inviti” a lasciare la scuola. Quì si pronunciavano parole che ferivano la nostra anima: chinavamo il capo e pensavamo che in quelle aule non sarebbe mai entrata la nostra vita. In quello scorcio del 1968, sotto gli archi dell’Acquedotto annottava presto. Clelia moriva tra gli stracci. Laura di un anno, moriva soffocata per una broncopolmonite doppia. Luigi si stringeva tra le mani le ginocchia doloranti, ma non poteva più riempirsi lo stomaco di Nisidina. Luciano voleva giocare sui binari: passò un treno e lo uccise. Angelo con un rene solo non poteva più lavorare nei cantieri, e aveva quattro figli. Era piovoso e freddo quello scorcio del 1968. la città si agitava, la contestazione partiva dalle fabbriche e dalle università. Noi confinati oltre e fuori dal mondo civile, ne eravamo appena lambiti. Le nostre giornate trascorrevano come sempre. Ma un giorno accadde un fatto strano che segnò una svolta nella nostra vita, in una baracca che misurava 3 x 3 nasceva la “Scuola 725″, la scuola del nostro riscatto”. Ecco, la targa che il 10 /10 verrà apposta sulle mura dell’Aquedotto Felice dice ciò che avvenne. Essa vuole segnalarci il dovere di fare della “memoria passionis” il luogo della speranza e non la tomba dell’oblio cui la nostra società si sta “beatamente” chiudendo cancellando ciò che avvenne in quel luogo tra il 1936 e il 1973. So che il recupero di questa memoria diventa pericoloso per gli assetti perbenisti e quietisti della città, ma noi siamo certi che solo quella memoria, attualizzata, può essere la chiave per un nuovo percorso culturale, democratico e politico tutto da costruire.»

don Roberto Sardelli


https://www.dinamopress.it/news/ne-andato-don-roberto-sardelli-preti-lottava-gli-ultimi/



martedì 6 settembre 2022

Libro del Qoelet o Ecclesiaste -La Torah del Tutto è Vanità- e del Tutto è recuperabile alla Gioia




Qoelet/ Ecclesiaste 11,8


8 Anche se vive l'uomo per molti anni

se li goda tutti,

e pensi ai giorni tenebrosi, che saranno molti:

tutto ciò che accade è vanità.


Qohelet: un credente con degli interrogativi

Qohelet, forse più conosciuto con il nome di Ecclesiaste, si presenta come una raccolta scritta di varie considerazioni formulate da un filosofo, un saggio o un pensatore.

Tali riflessioni, inoltre, sono incorniciate da un’introduzione e una conclusione probabilmente attribuibili ad un editore successivo. Non si tratta di riflessioni sparse,bensì di pensieri connessi tra loro, tutti relativi alla realtà umana e al senso dell’esistenza che, partendo da un incipit pessimista sulla realtà immanente (Ec. 1:14), si sviluppano e concludono indirizzando l’attenzione del lettore sia verso una prospettiva etica (Ec. 11:1-6) sia verso un piano trascendente (Ec. 12:1). Tale sviluppo è evidente anche nell’introduzione e nella conclusione; in queste due sezioni troviamo, da un lato la nota espressione «vanità delle vanità […] tutto è vanità» (Ec. 1:2; 12:8) e, dall’altro lato, una forte enfasi sull’importanza per l’individuo di istaurare e coltivare una relazione con Dio (Ec. 12:13, 14). Una peculiarità di questo pensatore, infatti, è la sua fede. Si potrebbe dire che Qohelet è «un credente che pensa, che si interroga sul senso delle cose e come rapportarle alla sua fede in Dio»1 e, così facendo, invita a tale riflessione anche ciascuno dei suoi lettori. Nello studio della storia della filosofia raramente si pensa al medio oriente antico  e ancora più raramente al popolo d’Israele. I primi nomi che ci vengono alla mente sono  forse Talete, Anassimene, Anassimandro, Eraclito, Democrito o, ancora più noti, Socrate, Platone e Aristotele; tutti nomi legati alla filosofia greca. Tuttavia, Qohelet ci mostra che anche in Israele, probabilmente in epoca precedente, vi fu un interesse per la riflessione,  il pensiero, la conoscenza, in altre parole, per la filosofia. Tra le pagine di questo libro, infatti, è possibile trovare alcuni temi e alcuni concetti che saranno riproposti nel corso  dei secoli da varie correnti filosofiche: il panta rei di Democrito, alcuni elementi comuni all’Epicureismo, allo Stoicismo o allo Scetticismo sul valore della felicità e dei piaceri, il senso della vita e il valore della conoscenza, la concezione della vita umana di  Schopenhauer rappresentata dall’immagine del pendolo che oscilla incessantemente tra dolore e noia passando per un momento fugace di gioia, o ancora il desiderio di possesso  di Faust, e l’idea dell’eterno ritorno proposta anche da Nietzsche2

Il campo di investigazione del nostro pensatore ebreo è molto ampio. Qohelet,  infatti, si interroga sul senso della realtà tutta, concentrandosi in particolar modo  sull’essere umano che prende parte a tale realtà, la sperimenta, la vive, si affatica in e per  essa e che, allo stesso tempo, sembra essere inesorabilmente destinato a distaccarsene. Per dare un’idea di quanto vasto sia il campo d’indagine di Qohelet basta pensare che il pensiero dell’autore gira intorno al «tutto»; il termine לֹּכ) kōl), che indica il tutto o la totalità, compare, sia alla forma base che in altre forme, 80 volte3 all’interno dello scritto  e spesso lo si trova nella formula «לֶבֶה לֹּכַה) «hakkōl heḇel), «tutto è vanità»4 , uno dei  ritornelli che funge quasi da leitmotiv all’interno del libro. Probabilmente, è proprio perché tratta un tema così vasto come quello del «tutto» e del «tutto per la vita umana» che questo libro, a distanza di secoli dalla sua composizione, può essere considerato ancora attuale, adatto anche ai giorni nostri5 .Nel corso del nostro lavoro di tesi, diviso in quattro capitoli, cercheremo di seguire il pensiero di Qohelet partendo dalla drammatica considerazione sul problema che affligge l’intero creato fino alla presentazione della gioia: quell’unico elemento che può riportare speranza agli esseri umani durante questa vita terrena che appare instabile e incerta. Proprio su quest’elemento vorremo focalizzarci, nel tentativo di riscoprire quelloche Qohelet presenta come il lato positivo della vita. È necessario, inoltre, non perdere mai di vista il background culturale e spirituale  dell’autore che, pur non scrivendo un trattato di teologia, include nelle sue riflessioni la  figura di Dio nella sua relazione con il creato e in modo particolare con l’umanità. A tal proposito, precisiamo che quando faremo uso della parola «uomo», in modo particolare nelle traduzioni dei vari passaggi che analizzeremo, non intendiamo il singolo individuo  di genere maschile ma, in un senso più generico del termine, l’essere umano. La nostra scelta vuole rispettare il termine originale utilizzato da Qohelet che scrive םָ דָ א‘) āḏām),termine che all’interno dell’Antico Testamento si riferisce ad Adamo il primo uomo, all’uomo in quanto individuo di genere maschile o, ancora, al genere umano. Nelle sue  riflessioni, Qohelet racconta una realtà che è comune a uomini e donne e offre dei consigli utili e validi per tutto il genere umano. Per questo motivo in linea di massima abbiamo preferito usare altri termini come «essere umano», «individuo» o «persona».  In un primo capitolo abbiamo provato a offrire una presentazione generale di Qohelet, presentando alcune informazioni utili sullo scritto e evidenziando il più possibile dei collegamenti con altri testi biblici e in, modo particolare, vetero testamentari. Successivamente ci siamo dedicati allo studio dei due temi che maggiormente spiccano  nella lettura di Qohelet: la vanità e la gioia. Per il primo tema, sicuramente più evidente  all’occhio del lettore, ci siamo avvalsi del supporto di studiosi e commentatori di gran lunga più esperti di noi i quali, nelle proprie opere, hanno offerto varie descrizioni di ciò  che Qohelet intende per «vanità» e cosa include quel «tutto è vanità» che apre e chiude  l’intera riflessione. Per quanto riguarda il secondo tema, invece, oltre all’aiuto necessario  di commentatori validi, abbiamo scelto di ricercare direttamente nel testo la presentazione  e lo sviluppo della tematica della «gioia»; per farlo abbiamo individuato cinque delle  pericopi in cui il tema viene trattato, le abbiamo studiate e analizzate in modo da poter   trarre le nostre conclusioni; per riferirci a questi passaggi abbiamo utilizzato l’espressione  «ritornelli sulla gioia», presa in prestito a L. Mazzinghi6  , che mostra molto bene il ruolo  di queste pericopi all’interno dello scritto: Qohelet, infatti, alterna le proprie riflessioni  sulla vanità dell’esistenza umana con questi brevi testi in cui la vita viene osservata da una prospettiva diversa grazie alla quale tutto assume un valore totalmente differente. Il terzo capitolo risulta essere, quindi, più lungo rispetto agli altri tre trattandosi di un  capitolo più tecnico e meno espositivo all’interno del quale ci siamo dedicati allo studio di cinque pericopi. Questo lavoro è stato propedeutico allo sviluppo della nostra tesi che è esposta nelle considerazioni sul tema della gioia all’interno del quarto ed ultimo  capitolo. In sintesi, potremmo dire che Qohelet, avendo fatto un’analisi dettagliata della  realtà che lo circonda, sia arrivato alla conclusione che, sebbene nella vita umana tutto  possa essere considerato vano e fugace, vi sono delle circostanze in cui gli esseri umani possono sperimentare gioia o piacere, insomma possono finalmente essere felici. Qohelet  vede la mano di Dio dietro tutto ciò e invita i propri lettori a saper riconoscere e  valorizzare la gioia quando si presenta nelle loro vite. Per Qohelet, la vita umana è quanto di più incerto e instabile possa esserci, proprio per questo ogni occasione di gioia va colta  e goduta. Il messaggio del libro, quindi, non è composto solamente dalle considerazioni sul «tutto è vanità», anzi, queste considerazioni sono affiancate da un tema che va in forte  contrasto con quello della vanità: la gioia.

Nel nostro lavoro di tesi abbiamo voluto enfatizzare l’importanza di questo  secondo elemento presentato da Qohelet che, nelle letture contemporanee viene spesso ignorato o sminuito. La nostra idea è che quel tema vada letto non come il messaggio principale che Qohelet vuole trasmettere ma come una parte molto importante della sua. valutazione complessiva della realtà e della vita umana. In fondo nel corso della propria vita ciascun individuo ha modo di vivere infiniti tipi di esperienze ma, spiega Qohelet, la miglior esperienza possibile è quella della gioia, che porta con sé anche tanto altro.Sebbene quello appena esposto sia stato il focus che abbiamo scelto di dare alla nostra tesi, siamo consapevoli che all’interno del libro di Qohelet è possibile trovare tanti  altri insegnamenti validi e attuali. Dopotutto, ciò che l’autore si propone di fare è la descrizione di una realtà estremamente vasta ed eterogenea; «Qohelet non tende a semplificare la realtà, ma a riconoscerne le complesse e variegate pieghe e sfaccettature»7

La nostra tesi, pertanto, non si propone come la lettura di Qohelet ma come una lettura  del libro per la quale abbiamo scelto di focalizzarci in modo particolare sulla descrizione della gioia all’interno della vita umana. Se affermassimo che vi è un solo modo di leggere  e comprendere Qohelet, vorrebbe dire che non abbiamo colto lo spirito del libro stesso, che invita ogni lettore ad accompagnare l’autore nelle proprie riflessioni e a continuare a riflettere, pensare e ragionare anche indipendentemente sulla vita e sull’esistenza umana.

Lo scopo che pensiamo questa tesi possa avere e, in fondo, il motivo che ci ha spinti a redigerla è quello di riportare alla luce un tema, all’interno di un libro, che non viene ordinariamente discusso né dal pulpito né in ambito accademico. La difficoltà nel  trovare opere che trattassero la tematica della gioia all’interno di Qohelet è una prova della necessità appena evidenziata. Ancora una volta, non abbiamo la presunzione di scrivere una parola definitiva sulla concezione della gioia all’interno del libro di Qohelet ma speriamo, quantomeno, di risvegliare l’interesse nei confronti di questo scritto e della letteratura sapienziale in genere.

Riscoprire il valore della gioia all’interno della filosofia qoheletiana ci aiuta sicuramente a riscoprire l’idea che l’autore si era fatto di Dio, un Dio che è ancora lo stesso e che ancora oggi tende la sua mano verso l’umanità per risollevarla e riscattarla da quell’assenza di senso che pervade ogni cosa e che Qohelet stesso denuncia con il suo  incalzante grido: «vanità delle vanità, tutto è vanità» (Nicolò D’Elia -Introduzione alla Tesi di Laurea magistrale in «Pastorale della famiglia»  Anno accademico 2020-2021-Istituto Avventista di Cultura Biblica-QOHELET E LA SUA RIFLESSIONE SULLA VITA UMANA TRA GIOIA E VANITÀ. Uno studio teologico di Qohelet con analisi esegetica di passi scelti)


sta in

https://villaaurora.it/wp-content/uploads/2020/11/DElia_Nicolo_Qohelet_una_riflessione_sulla_vita_umana_tra_gioia_e_vanita.pdf


A tale documento integrale di  163 pagine si rimanda per le note previste nell'Introduzione

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Era il 1955, e nella sinagoga di Torino il giovane Guido Ceronetti, studioso principiante di ebraico bilbico, si applicava sotto la guida del rabbino, a "una stentata versione interlineare" del rotolo detto nella Vulgata "Ecclesiaste": il secondo dei libri sapienziali dell'Antico Testamento, redatto da un ignoto autore del III secolo e da alcuni interpreti attribuito a Salomone stesso; e dal rabbino imparò a dirne i versetti. Da allora, per quasi cinquant'anni, Ceronetti ha continuato a confrontarsi con questo grande "poema ebraico". Oltre all'ultima versione, terminata nel 2001, questa edizione ci offre la prima, che risale al 1970; tra le due, l'amplissimo ventaglio delle riflessioni che hanno accompagnato il lavoro della traduzione.

martedì 5 luglio 2022

Mons. Christian Carlassare, ordinato Vescovo della diocesi di Rumbek, Sud Sudan, il 25/3/2022. *




«L’attentato dell’anno scorso mi ha fatto riflettere

sulla fragilità della mia vita stessa, come anche di ogni 

strategia e programma; e su quanto invece sia 

importante che io viva il quotidiano con coraggio e generosità.

Un quotidiano che deve essere rivolto  alle persone 

nell’ascolto e attenzione della dignità di ciascuno e nel 

desiderio di liberazione da quanto ancora oggi 

purtroppo schiavizza.

Opera che non sempre raccoglie il plauso o la 

cooperazione anche di chi dovrebbe lavorare in più 

stretto contatto.

Quanto è successo a me servirà per purificare e far spazio all’opera di Dio.

San Daniele Comboni usava dire che le opere di Dio, 

differenza di quelle umane, nascono e crescono ai piedi della croce.

E quindi mi sembra di poter intravedere la cura e la 

presenza di Dio in quanto è successo, per un maggior 

bene della missione e della Chiesa di Rumbek


*La cerimonia di ordinazione, che sarebbe dovuta avvenire lo scorso anno, è stata posticipata a causa della lunga riabilitazione dopo l’aggressione subita dal missionario comboniano, nella sua residenza, nella notte tra il 25 e il 26 aprile 2021. Le prime parole di Carlassare dopo l’attentato nel 2021 sono state: "Perdono chi mi ha sparato". In quell’occasione il missionario italiano ha anche esortato alla preghiera non per lui, ma per la gente di Rumbek: “un popolo - ha detto - che soffre più di me". Padre Christian è il vescovo italiano più giovane al mondo, posto alla guida di una diocesi che fu quella anche di un altro missionario comboniano, padre Cesare Mazzolari, morto nel 2011 pochi giorni prima della dichiarazione di indipendenza del Sud Sudan. Da quel momento, la diocesi di Rumbek era rimasta sede vacante


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https://www.difesapopolo.it/Diocesi/Padre-Christian-torna-finalmente-a-Rumbek.-Il-25-marzo-sara-consacrato-vescovo


L’Africa e l’unità dello stemma e nel motto scelti


Lo stemma episcopale scelto da padre Carlassare ha la forma dello scudo africano, ma al posto delle tradizionali lance ci sono un pastorale e un bastone del pellegrino. L’acqua del battesimo e il pane eucaristico, oltre alla vita della Chiesa simboleggiano la missione che inizia ai piedi della croce. Il motto deriva da Galati 3,28: «Tutti voi siete uno in Cristo Gesù».

Il processo
Mentre si diffonde la notizia dell’ingresso di padre Carlassare a Rumbek, il processo partito in seguito all’attentato dello scorso aprile sta arrivando alla conclusione anche grazie alla presa di posizione del Governo sudsudanese contro l’atto di violenza efferata. Delle sei persone detenute, due sono state rilasciate all’inizio del mese per mancanza di prove, dei quattro che ora attendono la sentenza due hanno confessato la loro colpevolezza e hanno indicato in un presbitero della Diocesi di Rumbek – che si professa innocente dal carcere – il mandante dell’attentato.

Padre Ezechiele Ramin, missionario comboniano, ucciso dai latifondisti, nell'Amazzonia brasiliana, il 24 luglio 1985, per il suo impegno a difesa degli Indios Suruì e dei contadini dello Stato di Rondonia (Brasile))



Padre Ezechiele Ramin, missionario comboniano, ucciso dai latifondisti, nell'Amazzonia brasiliana, il 24 luglio 1985, per il suo impegno a difesa degli Indios Suruì e dei contadini dello Stato di Rondonia (Brasile))

«Attorno a me la gente muore,
i latifondisti aumentano,
i poveri sono umiliati,
la polizia uccide i contadini,
tutte le riserve degli Indios sono invase.

Con l'inverno vado creando primavera.
I miei occhi con fatica
leggono la storia di Dio quaggiù.
La croce è la solidarietà di Dio
che assume il cammino e il dolore umano,
non per renderlo eterno,
ma per sopprimerlo.
La maniera con cui vuole sopprimerlo
non è attraverso la forza né col dominio,
ma per la via dell'amore.
Cristo predicò e visse questa nuova dimensione.
La paura della morte non lo fece desistere dal suo progetto di amore.
L'amore è più forte della morte»

domenica 5 giugno 2022

PENTECOSTE 2022 calendario dei cristiani d'occidente





Papa Francesco
@Pontifex_it
Lo Spirito Santo ci fa vedere tutto in modo nuovo, secondo lo sguardo di Gesù. Nel grande cammino della vita, Egli ci insegna da dove partire, quali vie prendere e come camminare. #Pentecoste

martedì 3 maggio 2022

Intervista del Papa Francesco al Corriere della sera ntervista a Papa Francesco: «Putin non si ferma, voglio incontrarlo a Mosca. Ora non vado a Kiev»





https://www.corriere.it/cronache/22_maggio_03/intervista-papa-francesco-putin-694c35f0-ca57-11ec-829f-386f144a5eff.shtml


Alcuni stralci riportati  in chiaro. suhttps://www.huffingtonpost.it/esteri/2022/05/03/news/papa_francesco_vuole_incontrare_putin_a_mosca_attendo_risposta_mi_apra_la_porta_-9312320/?ref=HHTP-BH-I9316465-P2-S2-T1


Nel rimandare al testo dell'intervista  vorrei sottolineare alcuni passaggi

Il primo giorno di guerra ho chiamato il presidente ucraino Zelensky al telefono — dice papa Francesco — Putin invece non l’ho chiamato. 


Ho voluto fare un gesto chiaro che tutto il mondo vedesse e per questo sono andato dall’ambasciatore russo. Ho chiesto che mi spiegassero, gli ho detto “per favore fermatevi”. Poi ho chiesto al cardinale Parolin, dopo venti giorni di guerra, di fare arrivare a Putin il messaggio che io ero disposto ad andare a Mosca. Certo, era necessario che il leader del Cremlino concedesse qualche finestrina. Non abbiamo ancora avuto risposta e stiamo ancora insistendo, anche se temo che Putin non possa e voglia fare questo incontro in questo momento. Ma tanta brutalità come si fa a non fermarla? Venticinque anni fa con il Ruanda abbiamo vissuto la stessa cosa».


«l’abbaiare della Nato alla porta della Russia» ha indotto il capo del Cremlino a reagire male e a scatenare il conflitto. «Un’ira che non so dire se sia stata provocata — si interroga —, ma facilitata forse sì»


Non so rispondere, sono troppo lontano, all’interrogativo se sia giusto rifornire gli ucraini — ragiona — .La cosa chiara è che in quella terra si stanno provando le armi. I russi adesso sanno che i carri armati servono a poco e stanno pensando ad altre cose. Le guerre si fanno per questo: per provare le armi che abbiamo prodotto. Così avvenne nella guerra civile spagnola prima del secondo conflitto mondiale. Il commercio degli armamenti è uno scandalo, pochi lo contrastano. Due o tre anni fa a Genova è arrivata una nave carica di armi che dovevano essere trasferite su un grande cargo per trasportarle nello Yemen. I lavoratori del porto non hanno voluto farlo. Hanno detto: pensiamo ai bambini dello Yemen. È una cosa piccola, ma un bel gesto. Ce ne dovrebbero essere tanti così».


 Io prima devo andare a Mosca, prima devo incontrare Putin. Ma anche io sono un prete, che cosa posso fare? Faccio quello che posso. Se Putin aprisse la porta...»


 «Ho parlato con Kirill 40 minuti via zoom. I primi venti con una carta in mano mi ha letto tutte le giustificazioni alla guerra. Ho ascoltato e gli ho detto: di questo non capisco nulla. Fratello, noi non siamo chierici di Stato, non possiamo utilizzare il linguaggio della politica, ma quello di Gesù. Siamo pastori dello stesso santo popolo di Dio. Per questo dobbiamo cercare vie di pace, far cessare il fuoco delle armi. Il Patriarca non può trasformarsi nel chierichetto di Putin. Io avevo un incontro fissato con lui a Gerusalemme il 14 giugno. Sarebbe stato il nostro secondo faccia a faccia, niente a che vedere con la guerra. Ma adesso anche lui è d’accordo: fermiamoci, potrebbe essere un segnale ambiguo»


L’unica cosa che si imputa agli ucraini è che avevano reagito nel Donbass, ma parliamo di dieci anni fa. Quell’argomento è vecchio


 adesso non è solo il Donbass, è la Crimea, è Odessa, è togliere all’Ucraina il porto del Mar Nero, è tutto. Io sono pessimista, ma dobbiamo fare ogni gesto possibile perché la guerra si fermi».


L’ultimo pensiero è per il cardinal Martini di cui il Papa ha riletto un articolo «perfetto», dopo l’11 settembre, sul terrorismo e sulla guerra. «È talmente attuale che ho chiesto di ripubblicarlo sull’Osservatore romano. Continuate sui giornali a indagare la realtà, a raccontarla. È un servizio al Paese di cui vi ringrazierò sempre».



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Rispetto a questi segmenti dell'intervista io credo che il Papa non possa nè debba essere arruolato tirandolo per la talare nel brodo dell'arcipelago del pacifismo politico. Francesco è schierato  ma è schierato con chiarezza e senza alcuna ambiguità

E neppure condivido le critiche di Flores d'Arcais  che vede nelle parole del Papa un "cadere nella propaganda di Putin "


Il Papa lungo l'intervista è chiarissimo  Io prima devo andare a Mosca, prima devo incontrare Putin. Ma anche io sono un prete, che cosa posso fare? Faccio quello che posso. Se Putin aprisse la porta...».


E' un prete mentre  Canfora Santoro Flores d'Arcais e Giannini non sono preti 



lunedì 18 aprile 2022

Rorate cœli desúper, et nubes plúant justum.


Rorate cœli desuper, manoscritto medioevale, Museo del Castello, Malbork in Polonia


Rorate cœli desúper,

et nubes plúant justum.


Ne irascáris Dómine, ne ultra memíneris iniquitátis:


ecce cívitas Sancti facta est desérta:

Sion desérta facta est: Jerúsalem desoláta est:

domus sanctificatiónis tuae et gloriae tuae,

ubi laudavérunt Te patres nostri.


Peccávimus et facti sumus quam immúndus nos,

et cecídimus quasi fólium univérsi:

et iniquitátes nostrae quasi ventus abstulérunt nos:

abscondísti fáciem tuam a nobis,

et allisísti nos in mánu iniquitátis nostrae.

Víde, Dómine, afflictiónem pópuli tui,

et mitte quem missúrus es:

emítte Agnum dominatórem terrae,

de pétra desérti ad montem fíliae Sion:

ut áuferat ipse jugum captivitátis nostrae.

Consolámini, consolámini, pópule meus:

cito véniet salus tua:

quare moeróre consúmeris, quia innovávit te dolor?

Salvábo te, noli timére, ego énim sum Dóminus Deus 

túus Sánctus Israël, Redémptor túus.


****

Stillate rugiada, o cieli, dall’alto, e le nubi piovano il Giusto. 

Non adirarti, o Signore, non ricordarti più dell’iniquità: 

Ecco che la città del Santuario è divenuta deserta: 

Sion è divenuta deserta: Gerusalemme è desolata: 

la casa della tua santificazione e della tua gloria, 

dove i nostri padri Ti lodarono. 

Peccammo, e siamo divenuti come gli immondi, 

e siamo caduti tutti come foglie: 

e le nostre iniquità ci hanno dispersi come il vento: 

hai nascosto a noi la tua faccia, e ci hai schiacciati per 

mano delle nostre iniquità.

Guarda, o Signore, l’afflizione del tuo popolo, 

e manda Colui che stai  per mandare: 

manda l’Agnello dominatore della terra, 

dalla pietra del deserto al monte della figlia di Sion: 

affinché Egli tolga il giogo della nostra schiavitù. 

Consolati, consolati, o popolo mio: presto verrà la tua 

salvezza: perché ti consumi nella mestizia, mentre il 

dolore ti ha rinnovato? 

Ti salverò, non temere, perché io sono il Signore Dio tuo, 

il Santo d’Israele, il tuo Redentore.


https://www.ilsussidiario.net/news/cultura/2014/12/8/letture-rorate-il-peccato-non-cancella-il-desiderio-di-dio/562671/


https://it.wikipedia.org/wiki/Rorate_c%C5%93li_desuper


https://www.newadvent.org/cathen/13183b.htm