sabato 30 novembre 2019

San Sofronio di Essex DELLA PREGHIERA DETTA CON DOLORE E CON LA QUALE L’UOMO NASCE ALL’ETERNITÀ

Gli approcci della preghiera profonda sono strettamente legati ad un profondo pentimento per i nostri peccati. Quando l’amarezza di questo taglio va oltre ciò che possiamo sopportare, il dolore ed il violento disgusto di sé cessano improvvisamente. In modo completamente inatteso, tutto cambia grazie all’irruzione dell’amore di Dio. E il mondo è dimenticato. Molti chiamano tale fenomeno “estasi”. Non mi piace questo termine, poiché è spesso associato a diverse deformazioni. Ma anche se chiamiamo diversamente questo dono di Dio e lo denominiamo “uscita dell’anima pentita verso Dio”, io dovrei dire che non mi è mai venuta l’idea di “coltivare” tale stato, cioè di cercare mezzi artificiali per giungervi. Questo stato è sempre venuto in modo completamente inatteso ed ogni volta diverso. La sola cosa di cui mi ricordo con sicurezza, è della mia afflizione inconsolabile causata dall’allontanamento da Dio; questa sofferenza era in un certo qual modo strettamente collegata al mio cuore. Mi pentivo amaramente della mia caduta e, se le mie forze fisiche fossero bastate, le mie lamentazioni non sarebbero mai cessate.

Ho scritto queste righe e, non senza tristezza, “mi ricordo dei giorni antichi” (Salmo 142, 5) – piuttosto delle notti – quando il mio spirito ed il mio cuore avevano così radicalmente deviato dalla mia vita passata che, per anni, il ricordo di ciò che avevo lasciato dietro di me non mi sfiorava più. Dimenticavo anche le mie cadute spirituali, ma la visione schiacciante della mia indegnità di fronte alla santità di Dio non cessava di intensificarsi.

Più di una volta, mi sono sentito come crocifisso su una croce invisibile. Al Monte Athos, ciò mi succedeva quando la rabbia contro quelli che mi avevano contrariato si impossessava di me. Questa passione terribile uccideva in me la preghiera e la riempiva d’orrore. A volte, mi sembrava impossibile lottare contro di essa: mi sbranava come una bestia feroce lacera la sua preda. Una volta, per un breve momento d’irritazione, la preghiera mi lasciò. Affinché ritornasse, dovetti lottare per otto mesi. Ma quando il Signore cedé alle mie lacrime, il mio cuore divenne più vigilante e più paziente.

Quest’esperienza della crocifissione si ripeté più tardi (allora ero già ritornato in Francia), ma in un altro modo. Non rifiutavo mai di prendermi cura, come confessore, di quelli che si rivolgevano a me. Il mio cuore provava una compassione particolare per le sofferenze dei malati mentali. Scossi dalle eccessive difficoltà della vita contemporanea, alcuni di loro richiedevano con insistenza un’attenzione prolungata, cosa che andava oltre le mie forze. La mia situazione era diventata senza via d’uscita: dovunque mi giravo, qualcuno gridava di dolore. Ciò mi rivelò la profondità delle sofferenze degli uomini della nostra epoca, triturati dalla crudeltà della nostra famosa civilizzazione.

Gli uomini creano enormi meccanismi governativi che si rivelano essere degli apparati impersonali, per non dire inumani, che schiacciano con indifferenza milioni di vite umane. Incapace di cambiare i crimini – davvero intollerabili, benché legalizzati – della vita sociale dei popoli, sentivo nella mia preghiera, senza alcuna immagine sensibile, la presenza di Cristo crocifisso. Vivevo in spirito la sua sofferenza con una tale acutezza che, anche se avessi visto con i miei stessi occhi colui che è stato “innalzato da terra” (cfr. Giovanni 12, 32), ciò non avrebbe in nessun modo aumentato la mia partecipazione al suo dolore. Per quanto insignificanti siano state le mie esperienze, approfondirono la mia conoscenza di Cristo nella sua manifestazione sulla terra per salvare il mondo.

In lui ci è stata data una rivelazione meravigliosa. Essa attrae il nostro spirito a lui con la grandezza del suo amore. Mentre piangeva, il mio cuore benediceva, e benedice ancora, il nostro Dio e Padre che ha voluto rivelarci, con il Santo Spirito, l’incomparabile e unica verità e santità del suo Figlio nelle piccole prove che ci colpiscono.

La grazia accordata ai principianti per attirarli ed istruirli non è a volte inferiore a quella data ai perfetti; tuttavia, ciò non significa che sia già assimilata da colui che ha ricevuto questa benedizione terribile. L’assimilazione dei doni divini esige delle prove prolungate ed una intensa fatica ascetica. Per risorgere e rivestire “l’uomo nuovo” di cui parla san Paolo (Efesini 4, 22-24), l’uomo decaduto passa attraverso tre tappe. La prima, è l’appello e l’ispirazione a intraprendere lo sforzo ascetico e spirituale che si presenta a noi. La seconda, è la perdita della grazia “percettibile” e la prova dell’abbandono di Dio; il suo senso è di offrire all’asceta la possibilità di manifestare la sua fedeltà a Dio con una scelta libera. La terza, infine, è l’acquisizione per la seconda volta della grazia percettibile, e la sua custodia legata ormai ad una conoscenza spirituale di Dio.

“Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto. E chi è ingiusto nel poco, è ingiusto anche nel molto. Se dunque non siete stati fedeli nelle ricchezze ingiuste, chi vi affiderà quelle vere? E se non siete stati fedeli in ciò che è altrui, chi vi darà il vostro?” (Luca 16, 10-12). Colui che, nel corso della prima tappa, è stato istruito direttamente dall’azione della grazia nella preghiera ed in qualsiasi altra opera buona, e che, durante un abbandono prolungato di Dio, vive come se la grazia rimanesse immutabilmente con lui, riceverà – dopo una lunga messa alla prova della sua fedeltà – la “vera” ricchezza in possesso eterno, ormai inalienabile. In altre parole, la grazia e la natura creata si collegano, ed i due diventano uno. Questo dono ultimo è la deificazione dell’uomo, la sua partecipazione al modo di essere divino, santo e senza inizio. È la trasfigurazione di tutto l’intero uomo, con la quale diventa simile al Cristo, perfetto.
Quanto a quelli che non rimangono fedeli “in ciò che appartiene ad altri”, secondo l’espressione del Signore, perdono ciò che hanno ricevuto all’inizio. Qui, osserviamo un certo parallelismo con la parabola dei talenti (cfr. Matteo 25, 14-29). […] Questa parabola, come pure quella dell’amministratore infedele, non è applicabile alle relazioni umane abituali, ma soltanto a Dio. Il padrone non tolse nulla al servo che aveva fatto fruttificare i talenti e li aveva raddoppiati, ma gli rimise in possesso la totalità – i talenti che gli erano stati affidati e quelli che aveva acquisito con la sua fatica – come ad un comproprietario: “Entra nella gioia (del possesso del Regno) del tuo Signore”. Quanto al talento del servo pigro, il padrone lo rimise “a colui che ne aveva dieci”, “poiché sarà dato”, a tutti coloro che fanno fruttificare i doni di Dio “e saranno nell’abbondanza” (Matteo 25, 29).


San Giovanni il Climaco dice da qualche parte che ci si può familiarizzare con qualsiasi scienza, qualsiasi arte, qualsiasi professione al punto da finire per esercitarla senza sforzo particolare. Ma pregare senza pena, ciò non è stato mai dato a nessuno, soprattutto la preghiera senza distrazione, compiuta dall’intelletto nel cuore. L’uomo che prova una forte attrazione per questa preghiera può sentire un desiderio difficilmente realizzabile: fuggire da ovunque, nascondersi da tutti, nascondersi nelle profondità della terra in cui, anche in pieno giorno, la luce del sole non penetra, o non giungono gli echi né delle pene degli uomini né delle loro gioie, dove si abbandona ogni preoccupazione di ciò che è passeggero. È comprensibile, poiché è naturale dissimulare la sua vita intima dagli sguardi esterni; ma, questa preghiera mette a nudo il nucleo stesso del cuore, che non sopporta di essere toccato, se non per mano del nostro Creatore.

A quali dolorose tensioni un tale uomo non si espone nei suoi tentativi per trovare un luogo conveniente a questa preghiera! Come un soffio venuto da un altro mondo, genera diversi conflitti, tanto interni che esterni. Uno di essi è la lotta con il proprio corpo, che non tarda a scoprire la sua incapacità a seguire gli slanci dello spirito; molto spesso, le necessità corporali diventano così lancinanti che costringono lo spirito a scendere dalle altezze della preghiera per prendere cura del corpo, altrimenti quest’ultimo rischia di morire.

Un altro conflitto interno emerge, particolarmente all’inizio: come possiamo dimenticare coloro che ci è stato comandato di amare come noi stessi? Teologicamente il ritiro dal mondo si presenta all’intelligenza come un passo opposto ai sensi di questo comandamento; eticamente, come un intollerabile “egoismo”; misticamente, come un’immersione nelle tenebre della spoliazione, in cui non c’è nessun appoggio per lo spirito, dove possiamo perdere coscienza della realtà di questo mondo. Infine, abbiamo timore, poiché non sappiamo se la nostra impresa soddisfi il Signore.

La spoliazione ascetica di tutto ciò che è creato, quando è soltanto il risultato dello sforzo della nostra volontà umana, è troppo negativa. Come tale, è chiaro che un atto puramente negativo non può condurre al possesso positivo, concreto, di ciò che si cerca. Non è possibile esporre tutte le vibrazioni e tutti gli interrogativi che assalgono lo spirito in simili momenti. Eccone tuttavia uno: “Ho rinunciato a tutto ciò che è passeggero, ma Dio non è con me. Non è questo «le tenebre esterne», l’essenza dell’inferno?”. Il ricercatore della preghiera pura passa per molti altri stati, a volte terribili per l’anima. Può darsi che tutto ciò sia inevitabile su questa via. L’esperienza mostra che è caratteristico per la preghiera penetrare nei vasti settori dell’essere cosmico.

Per la loro natura, i comandamenti di Cristo trascendono tutti i limiti; l’anima si tiene sopra il baratro dove il nostro spirito inesperto non discerne alcun cammino. Cosa farò? Non posso contenere l’abisso spalancato che si trova dinanzi a me; vedo la mia piccolezza, la mia debolezza; a volte, inciampo e cado da qualche parte. La mia anima, consegnata “nelle mani del Dio vivente”, si rivolge molto naturalmente a lui. Allora, mi raggiunge senza difficoltà, dovunque mi trovi.

All’inizio, l’anima è nel timore. Ma, dopo essere stata più di una volta salvata dalla preghiera, si rinforza gradualmente nella speranza, diventa più coraggiosa dove prima il coraggio sembrava completamente inappropriato.

Provo a scrivere sul combattimento invisibile del nostro spirito. Le esperienze che ho vissuto non mi hanno dato ragioni sufficienti per ritenere di avere già trovato l’eternità. Secondo me, finché siamo in questo corpo materiale, ricorriamo necessariamente ad analogie prese in prestito al mondo visibile.

Estratto da: Archimandrite Sophrony, La prière, expérience de l’éternité, Cerf/Le sel de la terre, 1998.



Padre di bontà, o Figlio unico, o Santo Spirito, Trinità fonte di Luce e Creatrice di Vita,

Che, per la tua sapienza insondabile, hai chiamato tutta la creazione visibile ed invisibile dal non essere all’essere, e che, con la tua potenza ineffabile mantieni tutte le cose,

Che, per i tuoi altri benefici riguardo agli uomini, ci hai affidato questo ministero celeste:

Rendici degni con la tua grazia di credere in questo Mistero, di cogliere la maestà e di compiere con un cuore puro ed uno spirito illuminato questo sacramento in un modo degno,

Noi ti preghiamo, esaudisci ed abbi pietà.
Archimandrita Sofronio
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il 28 Novembre 2019 il Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli della Chiesa Ortodossa: padre Sofronio di Essex (1896-1993).

Santo padre nostro Sofronio intercedi per noi!

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