martedì 29 marzo 2016

SAN LEONE MAGNO PAPA SERMONE TENUTO PER LA QUARESIMA, domenica 13 marzo 455


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SERMONE TENUTO PER LA QUARESIMA, domenica 13 marzo 455

 Fra tutti i giorni che per diversi aspetti la devozione cristiana ritiene degni di venerazione,  carissimi, nessuno è superiore alla solennità della Pasqua, ed è in rapporto a questa che nella Chiesa di Dio viene riconosciuta la dignità di tutte quante le feste. Certamente fu in vista di questo mistero anche la stessa nascita del Signore dalla Madre, né ci fu altro motivo nella nascita terrena del Figlio di Dio se non quello di poter essere messo in croce. Nell’utero della Vergine, infatti, fu assunta la carne mortale e nella carne mortale ebbe compimento il disegno della passione, che per l’ineffabile disposizione della misericordia divina fu per noi sacrificio di redenzione, abolizione della colpa e principio di risurrezione alla vita eterna. Considerando tutto quello che il mondo intero ha conseguito per mezzo della croce del Signore, riconosciamo che è giusto prepararci a celebrare il giorno della Pasqua con il digiuno di quaranta giorni, in modo da poter partecipare degnamente ai divini misteri. Non soltanto i vescovi, o i sacerdoti, né i soli diaconi, ma tutto il corpo della Chiesa e l’intero popolo dei fedeli occorre che sia purificato da ogni macchia, affinché il tempio di Dio, di cui è fondamento lo stesso fondatore, sia bello in ogni pietra e splendido in ogni sua parte. Se a ragione si abbelliscono con ogni ornamento i palazzi dei re e le case delle più alte autorità, perché siano tanto più eccellenti le dimore di quelli di cui più grandi sono i titoli, con quanta cura si deve edificare, con quanta magnificenza si deve adornare l’abitazione di Dio stesso [cf. Ef  2,22]! Sebbene questa abitazione non possa essere iniziata e portata a termine senza il suo costruttore, tuttavia essa ha ricevuto in dono da lui di promuovere la sua crescita anche con la propria fatica. È viva infatti e dotata di ragione la materia che viene scelta per la costruzione di questo tempio ed è spinta dal soffio della grazia a compaginarsi volontariamente in un’unica costruzione. Ed è così tanto amata, così tanto cercata, che essa stessa passa dal disinteresse all’interesse, dal disamore all’amore, secondo quanto afferma il beato apostolo Giovanni: “Noi dunque amiamo, perché Dio ci ha amato per primo” [1Gv 4,19]. Pertanto, poiché tutti i fedeli nel loro insieme e ciascuno singolarmente costituiscono l’unico e medesimo tempio di Dio [cf. 1Cor 3,16; 2Cor 6,16], questo, come deve risultare perfetto nella totalità delle sue parti, così deve esserlo in ciascuna di esse, perché anche se la bellezza di tutti i membri non è identica, né vi può essere parità di meriti in tanta varietà di elementi, tuttavia il vincolo della carità conferisce la comunione nella bellezza. Coloro che sono congiunti in un amore santo, infatti, anche se non dispongono dei medesimi benefici della grazia, tuttavia godono reciprocamente dei rispettivi beni, e non può rimanere loro estraneo quel che amano, perché chi si rallegra del progresso altrui, avanza lui stesso.

2.
In questa comunione dei santi, carissimi, nella quale è identico ciò che si ama, ciò che si apprezza,  ciò che si pensa, non vi è posto per i superbi, né per gli invidiosi, né per gli avari, e tutto ciò che costituisce motivo di vanto per la vanità o acuisce la veemenza dell’ira o incrementa la lussuria non può essere ritenuto appartenere all’alleanza di Cristo, ma al partito del diavolo, ed è rigettato lontano dalle dimore della pietà. Si infuria pertanto l’avversario dell’innocenza e il nemico della pace e, poiché egli non rimase fermo nella verità [Gv 8,44] e per la sua  superbia perse completamente la gloria della sua natura, si affligge nel vedere l’uomo reintegrato dalla misericordia divina e introdotto a godere di quei beni che egli perse. Né c’è da meravigliarsi se l’istigatore del peccato è tormentato dalla bontà di coloro che agiscono con giustizia e torturato dalla fermezza di coloro che non può far cadere, giacché talvolta anche fra gli uomini si trovano di quelli che vogliono imitare le opere di una tale malvagità. Molti infatti – c’è da rattristarsene – si crucciano per i progressi degli altri e siccome sanno che i vizi non sono graditi alle virtù, si accaniscono nell’odiare quelli di cui non seguono l’esempio. I servi di Dio, invece, e i seguaci della verità amano anche quelli diversi da loro e fanno guerra ai vizi piuttosto che agli uomini, “non rendendo a nessuno male per male” [Rm 12,17], ma desiderando sempre la correzione di coloro che peccano. È molto bello e degno di essere paragonato alla divina bontà quando ognuno riconosce se stesso nell’altro ed ama la propria natura anche in un nemico. Sappiamo del resto che moltissimi sono passati da pessimi ad ottimi costumi, che da ubriaconi sono diventati sobri, da spietati compassionevoli, da avidi generosi, da intemperanti casti, da violenti calmi. Secondo la parola del Signore, poi – “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” [Mt 9,13] – a nessun cristiano è lecito odiare chicchessia,  poiché nessuno si salva se non perché gli sono rimessi i peccati, e quelli che la sapienza del mondo giudica spregevoli, non sappiamo quanto la grazia dello Spirito possa rendere preziosi.

3.
Sia dunque santo il popolo di Dio, sia disposto al bene: santo, per evitare ciò che è proibito; disposto al bene, per compiere ciò che è comandato. Per quanto sia un gran bene possedere la retta fede e la sana dottrina e siano meritevoli di grande lode la mortificazione della gola, la dolcezza della mansuetudine, la purezza della castità, nondimeno tutte le virtù rimangono nude senza la carità, e quale che sia l’elevatezza dei costumi, non si può ritenere fecondo di frutti quel che non è stato generato dalla carità. Per questo nel Vangelo di Giovanni il Signore dice: “Da questo sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” [Gv 13,35]; e in una lettera del medesimo apostolo si legge: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” [1Gv 4,7-8]. I fedeli vaglino perciò il loro animo e giudichino con un sincero esame quali sono i sentimenti profondi del loro cuore e, se troveranno nella loro coscienza qualche frutto di carità, stiano certi che Dio abita in loro; e perché siano sempre più capaci di ricevere un ospite tanto grande, divengano più accoglienti mediante assidue opere di misericordia. Se infatti Dio è amore [cf. 1Gv 4,16], la carità non deve avere alcun limite, perché la divinità non può essere rinchiusa entro nessun confine.

4.
Tutti i tempi dell’anno sono opportuni, carissimi, per esercitare il bene della carità; tuttavia i giorni attuali spronano in maniera particolare coloro che desiderano ricevere la Pasqua del Signore, santificati nel corpo e nello spirito, a cercare di acquistare soprattutto questa grazia, nella quale non solo è racchiuso tutto il complesso delle virtù, ma viene anche coperta una moltitudine di peccati [cf. 1Pt 4,8; Pr 10,12b]. Pertanto, trovandoci vicini a celebrare quel mistero che è superiore a tutti e con il quale il sangue di Gesù Cristo distrusse le nostre iniquità, prepariamo anzitutto sacrifici di misericordia [cf. Eb 13,16] e quello che ci ha concesso la bontà di Dio offriamolo anche noi a chi ha peccato contro di noi. Si dimentichino le ingiurie, non si puniscano più le colpe con la tortura e siano liberati dalla paura del castigo tutti i sottoposti che hanno mancato. Nessuno sia detenuto nelle prigioni, né continuino a uscire i tristi gemiti dei colpevoli dalle carceri tenebrose. Se qualcuno tiene in queste condizioni chi si è reso colpevole di qualche delitto, sappia che è in peccato e per ricevere egli stesso il perdono si rallegri di aver trovato a chi perdonare. Così, quando secondo l’insegnamento di Dio diremo: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori” [Mt 6,12], potremo essere certi di ottenere la clemenza divina secondo le parole della nostra preghiera.

5. Anche verso i poveri e quelli che sono impediti da varie infermità, si dimostri ora una generosità più benevola, affinché siano rese grazie a Dio dalla voce di molti [cf. 2Cor 9,11-12], e il nutrimento degli indigenti sia sostenuto dai nostri digiuni. Nessuna forma di devozione dei fedeli, infatti, è gradita al Signore più dell’offerta fatta ai suoi poveri; egli ravvisa l’immagine del suo amore laddove riscontra l’attenzione alla misericordia [cf. Lc 6,36]. Nel compiere queste elargizioni non temiamo la diminuzione del nostro patrimonio, perché la stessa bontà costituisce una grande ricchezza, né possono venire a mancare i mezzi per dare generosamente, quando è Cristo che nutre ed è nutrito. In tutte queste azioni interviene quella mano che spezzando il pane lo fa crescere [cf. Mt 14,19; 15,36; Mc 6,41; Lc 9,16] e nel distribuirlo lo moltiplica. Sia lieto [cf. 2Cor 9,7b] e non abbia timore chi distribuisce elemosine, perché raccoglierà il più grande guadagno quando per sé avrà riservato il minimo indispensabile, secondo la parola del beato apostolo Paolo: “Colui che somministra il seme al seminatore e il pane per il nutrimento somministrerà e moltiplicherà anche la vostra semente e farà crescere i frutti della vostra giustizia” [2Cor 9,10], in Cristo Gesù Signore nostro, che vive e regna col Padre e con lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.

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