La prima volta che entri in carcere non la dimentichi più…
Un ragazzo si è tagliato le braccia con una lametta.
Non per morire.
Per sentirsi.
Perché a un certo punto, lì dentro, anche il dolore diventa un modo per ricordarti che sei vivo.
Le ferite erano linee rosse sottili, parallele, precise.
Come se avesse scritto qualcosa.
Un codice segreto inciso sulla pelle.
Un messaggio al mondo:
“Guardami.”
Lo guardo.
Ha diciotto anni.
Nessuno viene a trovarlo. Nessuno lo chiama.
Ha una madre tossica, un padre in carcere.
Ogni tanto ride, ma solo con i denti. Gli occhi sono vuoti.
Dice di star bene, ma nel frattempo nasconde pezzi di vetro sotto al materasso.
Farfuglia qualcosa in arabo, non sa che lo capisco.
Conosco un po’ l’arabo perché me lo hanno insegnato i miei amici alle scalette di via Marsala,
ma faccio finta di non capire.
E mentre un altro parla, io non respiro.
Non posso.
Perché in quei racconti non c’è aria.
Solo umidità e ruggine.
⸻
Il primo giorno che entro in carcere non è l’inizio di un progetto.
È un crollo.
Un’invasione.
È come se avessi scavalcato un confine invisibile tra i vivi e i dimenticati.
E lo sanno bene tutte le donne, le madri, le figlie e le sorelle che vanno ai colloqui.
Questa non è la realtà patinata di Mare Fuori che ci propinano le serie TV.
Questa è la realtà cruda che ho vissuto lì dentro.
I detenuti, quelli veri, non sono come nei film.
Non sono tutti tatuati, palestrati, minacciosi.
Ce n’è uno magrissimo, con un libro di Bukowski.
Uno con la kefiah legata al braccio.
Uno che parla con le formiche.
Poi ci sono quelli che dettano legge.
Ma in silenzio.
Basta un sopracciglio alzato per far abbassare lo sguardo agli altri.
——
Avevo creato questo progetto di volontariato in carcere per rivedere Hamza.
Un corso di rap, una proposta ufficiale, notti passate a scrivere piani didattici per i detenuti.
Tutto solo per poter rivedere il mio migliore amico.
L’unico uomo che, nella mia vita, mi abbia mai portato rispetto senza chiedere niente in cambio.
Ma quando entro… Hamza non c’è.
Non lo trovo.
Non lo nominano.
E io non oso chiedere.
Perché in carcere il silenzio è la forma più diffusa di protezione.
⸻
Il primo cancello si apre come una porta all’inferno.
Un gemito di ferro.
Una resa.
E io non sono più una libera.
Sono un corpo in prestito.
Lì dentro la luce non scalda.
Ti brucia.
È bianca, sparata in faccia.
Ti espone.
Ti ispeziona.
Come se anche il neon volesse sapere da che parte stai.
Mi aspettavo le sbarre, i muri scrostati, i passi lenti.
Ma il carcere non è una scenografia. È un ecosistema.
Un mondo parallelo in cui tutto si contrae: lo spazio, il tempo, la dignità.
I corridoi odorano di candeggina, urina, paura.
Sudore vecchio.
Sogni rotti.
Chi lavora in carcere impara presto a spegnere le parole,
come si spengono le sigarette nei cessi rotti.
Cammino.
Conta dei passi: 37.
Sono i primi metri di mondo che non mi appartengono.
Dietro di me, il vuoto.
Davanti a me, un’umanità compressa come tabacco da contrabbando.
La guardia mi guarda storto.
«Se un detenuto ti fissa, non ricambiare lo sguardo.
E non dare pile a nessuno, se le ingoiano per andare in ospedale.»
Sorrido lo stesso a un ragazzo che passa con le manette, la guardia e il suo avvocato affianco.
Perché nella vita mi è stato tolto tutto, ma non la voglia di sorridere.
Lui ricambia.
È come se avessi acceso una sigaretta in una stanza piena di gas.
Mi chiamano “Miss”.
Ma mi danno del lei, i detenuti.
Per rispetto.
E io li chiamo tutti “bro”, perché è per un bro che sono qui.
Ed in quel momento si sciolgono, perché sentono che forse, lì dentro, c’è una sorella.
Mi chiedono da dove vengo.
Non vogliono sapere la città.
Vogliono la mia storia.
Perché in carcere o sei vera, o sei fottuta.
E io sono vera.
Vera come la rabbia che sento quando vedo uno di loro accarezzare una foto accartocciata.
Vera come le rime scritte sui fogli strappati dal libretto delle istruzioni della lavatrice.
⸻
E allora la vedi, la verità.
Uno ha i denti mangiati dal metadone.
Uno si è cucito la bocca con ago e filo da cucito.
Uno dorme con le scarpe perché ha paura che lo sveglino a calci.
Uno mi mostra la foto del figlio, ma non sa se è ancora vivo.
Tra di loro c’è un assassino.
Me lo dice lui, senza mezzi termini.
Gli altri lo evitano, lo temono, è evidente.
Il mio compito lì non è giudicare — lo so —
ma una parte di me in quel momento si incrina.
Crepe sottili, invisibili agli altri, ma profonde.
Dicono che dalle crepe entri la luce.
Spero arrivi presto.
I suoi occhi hanno qualcosa in comune con quelli di mio marito.
Non il colore.
Ma il modo in cui guardano.
Come se ti stessero sempre sfidando a dimostrare il contrario.
Mi destabilizza.
Eppure è uno dei più coinvolti al corso.
È anche uno dei più talentuosi.
Scrive rime come se gli servissero per respirare.
Poi ne arriva un altro.
E lui… non è come gli altri.
Si fa chiamare “Double F”.
Succede qualcosa al mio cuore.
Una vibrazione, una risonanza profonda, inspiegabile.
È come se lo conoscessi da sempre.
E allo stesso tempo… non so nulla di lui.
Arriva Ava.
Maglietta dell’Inter, sorriso gigante, due occhi blu che sembrano il mare quando il mare è felice.
Si affaccia nella stanza con l’aria di uno che ha sbagliato pianeta.
“È qui il corso di ballo?”
Lo guardo per un attimo. Ha la faccia da chi non si arrende mai, nemmeno davanti a un equivoco.
“No, fratè, qui insegno rap.”
Lui ci pensa mezzo secondo. Poi sorride di nuovo.
“Mi va bene uguale.”
Scoppio a ridere. “Ok bro, sei dei nostri.”
E tu pensavi di insegnargli a fare rap.
Ma loro ti insegnano la fame.
Quella di voce.
Di contatto.
Di speranza.
⸻
Il carcere non rieduca.
Il carcere sospende.
Ferma la vita come un respiro trattenuto troppo a lungo.
E poi ti lascia lì, a marcire nel tempo.
Il carcere isola.
Incatena.
Deforma.
Non ci sono psicologi per tutti.
Non ci sono progetti per tutti.
Non ci sono possibilità per chi non ha santi né avvocati.
Il carcere è l’arte della sopravvivenza quotidiana.
Togli a un uomo tutto e ti accorgerai che anche la follia ha dei rituali.
Ti spoglia di tutto.
Poi ti specchia.
E ti mostra la versione di te che il mondo ha scartato.
Il rap?
Il rap è solo un pretesto.
Per parlare.
Per piangere senza piangere.
Per dire “ci sono”, anche se nessuno ti sente.
Ti toglie i colori, i rumori, gli odori del mondo.
E ti restituisce versioni peggiori di te stesso.
Più arrabbiate.
Più violente.
Più sole.
Li dentro il tempo è un animale zoppo che si trascina.
Non scorre.
Si ripete.
Uguale.
Ogni ora. Ogni giorno.
Ogni stagione che non puoi sentire sulla pelle.
C’è chi studia.
Per restare sano.
C’è chi scrive lettere che non spedirà mai.
C’è chi si masturba per dimenticare.
Chi si buca per dormire.
Chi fa palestra per non pensare.
Chi canta per sopravvivere.
La mia aula è una stanza spoglia.
Un tavolo.
Delle sedie.
E le storie che portano.
Storie fatte di rapine, cocaina, madri che non ti rispondono più al telefono.
Storie senza finale.
O con un finale già scritto, in fondo al codice penale.
⸻
Uno mi dice:
«Miss, qui dentro o diventi un leone, o diventi carne.»
Lo guardo.
Ha gli occhi vivi.
Ma pieni di graffi.
«Io sono qui per i leoni», gli dico.
«E per quelli che non vogliono diventare carne.»
Un altro si avvicina.
«Miss, hai delle pile?»
«Le vuoi per ingoiarle o per ascoltare musica?»
«Giuro su Allah, per la musica.»
Annuisco.
Giuro anch’io.
Su quello che ho dentro.
Su un bisogno disperato di cambiare almeno una virgola in queste vite sgrammaticate.
⸻
Quella sera torno a casa con gli occhi che bruciano.
Non di pianto.
Di verità.
Perché là dentro ho visto che chi sbaglia paga.
Ma non tutti hanno fatto in tempo a imparare a non sbagliare.
Pensavo di essere entrata per rivedere Hamza.
E invece ho visto il Paese.
Nudo.
Marcio.
Segreto.
Il carcere non è il fondo.
È il ventre.
È dove lo Stato nasconde ciò che non vuole vedere.
È la pancia nera dell’Italia ben vestita.
Dove i mostri non sono quelli che ti raccontano nei telegiornali.
Ma quelli che abbiamo abbandonato da bambini.
E che ora si sono fatti grandi.
Dietro le sbarre.
Con la rabbia tra i denti.
E ancora, un disperato, disperatissimo bisogno d’amore.
Hamza non l’ho visto.
Ma ho visto molto di più.
Niente manette.
Ma catene, sì. Le portano nel cuore.
E io pure.
Siamo più simili di quanto sembri,
solo che le mie catene hanno le chiavi nel cassetto della cucina.
Anche io vivo in una gabbia.
La mia ha lenzuola pulite e vista mare.
Niente sbarre alle finestre.
Ma abbastanza spazio per sentirsi intrappolata lo stesso con un comandante che chiamo con il nome di marito.
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