giovedì 20 aprile 2023

VORREI UN IMMIGRATO COME VICINO DI CASA di Paolo Berizzi Inviato di Repubblica






Vorrei avere un immigrato come vicino di casa. Con, o senza famiglia. Qualcuno che viene da terre lontane, con una storia, una cultura, usanze e tradizioni “altre” rispetto alle mie. Qualcuno da cui imparare parte del tanto che non so, che mi contamini con il suo vissuto che magari è complementare al mio o non importa, perché la diversità mi incuriosisce sempre, in ogni sua forma, ad ogni latitudine. Ed è infinitamente più interessante dell’omologazione. L’inizio di questo pezzo non è un’iperbole. Non è una provocazione né una battuta zaloniana “tolo tolo” style. Sono serio. Talmente serio che, per capirci, rispondo subito a quelli che “facile dire così quando abiti nelle Ztl”. E allora? Qual è il problema? Forse il problema siamo noi. Noi che continuiamo a clonare i luoghi comuni della narrazione che domina nel dibattito pubblico. Noi che atrofizziamo i muscoli dell’anima credendoci forti. Vengo dunque al punto. Per quanto tempo ancora dovremo considerare un’area a traffico limitato come un muro sociale, una barriera invisibile che divide il mondo, anzi, i mondi: chi sta di qua e chi sta dall’altra parte? In mezzo, prima ancora che l’ovvia disparità delle condizioni sociali ed economiche, si alligna il pregiudizio la cui gramigna attecchisce nel terreno sempre fertile dell’ignoranza (un virus socialmente trasversale).

Il peggior nemico della società contemporanea non è la paura di chi è “diverso” da te: è la paura del nuovo, e cioè una delle forme di timore più antiche con cui l’uomo misura se stesso. Il nuovo ha incorporata la differenza (altrimenti che nuovo sarebbe). E siccome il nuovo di questo terzo millennio italiano è il meticciato, per qualcuno la paura fa novanta. A me il meticciato piace. Sogno una città - la mia città, Bergamo - dove le terre di mezzo si estendano gioiosamente alle Ztl. Lo desidero per due motivi. Primo: se sei favorevole all’immigrazione e all’accoglienza, e le consideri un’opportunità, non puoi esserlo solamente se i nuovi arrivati (ultimi, in ordine di tempo) vivono nelle periferie o nei quartieri che attraversi per raggiungere l’autostrada. Secondo: in questo modo si sfilerebbe ai sovranisti e ai populisti del nazionalismo 2.0 uno dei loro cavalli di battaglia: e cioè che gli immigrati li difendono solo quelli che non li hanno accanto, o sotto casa. Il che è un’affermazione odiosa, perché basata sul sillogismo immigrato uguale persona che, diciamo, disturba. Vivo in Città alta da molti anni. Nel borgo antico, che è progressivamen- te molto cambiato (non sempre in meglio), non abitano solo ricchi scollegati dalla realtà e dai problemi. Ci abitano anche persone che amano i centri storici, che lavorano per pagare un mutuo e che sono allergiche ai recinti, ai dormitori d’élite, al concetto del “noi” e del “loro”. In Città alta non si vedono immigrati. Nemmeno venditori ambulanti. Perché? In Cit- tà alta, oltre a una giungla di B&B, ci sono decine di alloggi comunali. Alcuni sorgono accanto a casa mia. Mi piacerebbe che quegli appartamenti fossero abitati da un numero maggiore di “nuovi cittadini”, nuovi italiani, nuovi bergamaschi: donne e uomini che prima venivano semplicemente iscritti alla voce “immigrati” ma che poi sono diventati parte del tessuto socialePerché lavorano, perché mandano i figli a scuola, perché pagano le tasse per avere servizi. Perché hanno il sacrosanto diritto di vivere bene e in sicurezza mangiando cous cous e pollo speziato. Chiamatemi buonista, non me ne importa nulla. Attendo una famiglia indiana da salutare la sera sul pianerottolo, dei bimbi africani che giochino in cortile offrendo ai condòmini sorrisi bellissimi che colorano di vita il tedio formale, quasi asettico, di certi vicini. Lavoratori che rincasano e magari riescono a parcheggiare l’auto prima che si spiaggino i mastodontici Suv con cui le mamme scarrozzano i figli tra golf e palestra. E se i nuovi bergamaschi appoggiano le loro biciclette nell’atrio, sono felice uguale. Questo è il presente, questa è la sfida da affrontare e vincere: abbattere il muro cresciuto nella nostra mente, non permettere alle pietre dell’odio di farci inciampare lungo il cammino. Amare il nuovo che avanza. Sempre


articolo di Febbraio 2020 inhttps://cdn.sanity.io/files/uwcqf9vm/production/c7c6b92539a89bb20da6429d4f0eabefd347487e.pdf