Disegno ottocentesco di G.
Mariani dell’affresco perduto dell’oratorio cristiano
del Colle Oppio
MARTIRIO DI SANTA FELICITA
E DEI
SUOI SETTE CRISTIANISSIMI FIGLI
http://www.oodegr.com/tradizione/tradizione_index/vitesanti/sfelicitaefigli.htm
La
prima accusa alla cristiana Felicita, vedova e madre di sette figli
(come Sinforosa di Tivoli), è mossa dalle autorità sacerdotali
pagane. Può sembrare strano che l’abbia accolta un imperatore come
Marco Aurelio, che aderiva alla filosofia stoica, non senza una
venatura di scetticismo per tutte le fedi religiose, ma l’accusa dei
pontefici toccava un tasto molto delicato: «Contro la vostra salute
questa vedova con i suoi figli insulta i nostri dèi!»[1].
Sul culto dell’imperatore si scontravano Roma e il cristianesimo e,
fin dai tempi di Plinio e Traiano, l’atto di adorazione al sovrano
era la condizione indispensabile perché un cristiano venisse
prosciolto da un’accusa. Inoltre l’impero di Marco Aurelio fu
turbato da guerre, pestilenze e altre calamità che, per i sacerdoti
e la folla pagana, erano causati dalla collera degli dèi: l’ostilità
dei cristiani al culto tradizionale doveva quindi essere punita.
Felicita e i figli erano di famiglia nobile, tanto che a uno dei
giovani il prefetto Publio, il quale dirige il processo, promette di
farlo diventare «amico degli Augusti»[2].
La condanna imperiale a morire sotto diversi giudici (e quindi con
diversi supplizi) mirava forse a dare un esempio agli abitanti dei
vari quartieri di Roma.
Alcuni
studiosi hanno messo in dubbio l’autenticità degli atti,
considerando il racconto un’imitazione di quello dei sette fratelli Maccabei (II libro dei Maccabei 1,1-41)[3],
ma un documento scritto del IV secolo relativo alla loro sepoltura e
alcuni ritrovamenti archeologici sembrano confermarne l’autenticità.
In una omelia, pronunciata nella basilica di santa Felicita, San
Gregorio il Dialogo, papa di Roma, fa riferimento ad un antico
documento, le “Gesta emendatoria”, contenente la storia dei nostri
martiri, e li ricorda in un suo commento all’Evangelo di Matteo (12,
47).
La Chiesa Ortodossa li onora il 25 gennaio. Nella Chiesa
di Roma Antica, nel IV secolo, la loro festa veniva celebrata, con
molta solennità e grande partecipazione dei fedeli, il 10 luglio[4],
chiamato dalla gente “dies martyrum”.
I -
Ai tempi dell’imperatore Antonino scoppiò una rivolta dei pontefici
e fu arrestata e trattenuta in carcere la nobildonna Felicita con i
suoi sette cristianissimi figli[5].
Permanendo nello stato di vedovanza, aveva consacrato a Dio la sua
castità e, dedicandosi giorno e notte alla preghiera, offriva alle
anime caste uno spettacolo altamente edificante. I pontefici allora,
vedendo che, per opera sua, progrediva la divulgazione del nome
cristiano, la calunniarono all’imperatore dicendo: «Contro la vostra
salute questa vedova con i suoi figli insulta i nostri dèi! Se non
venererà gli dèi, sappia la pietà vostra che i nostri dèi si
adireranno talmente da non poter essere placati con nessun mezzo».
Allora l’imperatore Antonino ingiunse a Publio[6],
prefetto della città, di costringerla, insieme con i suoi figli, a
mitigare con i sacrifici le ire dei loro dèi. Pertanto Publio,
prefetto della città, fece venire al suo cospetto la donna in
udienza privata e, pur invitandola al sacrificio con blande parole,
le minacciava la morte tra i supplizi. Felicita gli rispose: «Non
potrò né cedere alle tue blandizie né piegarmi alle tue minacce. Ho
infatti lo Spirito santo che non permette che io sia vinta dal
demonio; pertanto sono sicura che ti vincerò da viva e, se sarò
uccisa, meglio ancora ti vincerò da morta».
Replicò Publio: «Disgraziata, se per te è dolce morire, fa vivere
almeno i tuoi figli!».
Rispose Felicita: «I miei figli vivranno, se non sacrificheranno
agli idoli; se invece commetteranno un delitto così grande, andranno
incontro alla morte eterna».
II -
Il giorno dopo Publio sedette nel foro di Marte, mandò a chiamare
Felicita con i figli e le disse: «Abbi pietà dei tuoi figli, giovani
retti e nel fiore dell’età!».
Rispose Felicita: «La tua misericordia è empietà e la tua
esortazione crudeltà» e, rivolta ai figli, disse loro: «Mirate al
cielo, o figli, e levate in alto lo sguardo; là vi attende Cristo
con i suoi santi. Combattete per le vostre anime e mostratevi fedeli
nell’amore di Cristo!».
Udendo queste parole, Publio la fece schiaffeggiare, dicendo: «Hai
osato, in presenza mia, dare codeste esortazioni, affinché
disprezzino i comandi dei nostri sovrani?».
III
- Quindi chiamò il primo dei figli di lei, di nome Gennaro, e,
promettendogli abbondanza di beni terreni,, parimenti gli minacciava
le frustate, se si fosse rifiutato di sacrificare agli idoli.
Gennaro rispose: «Cerchi d’indurmi alla stoltezza, ma la sapienza di
Dio mi protegge e mi farà superare tutte queste prove».
Subito il giudice lo fece percuotere con le verghe e rinchiudere in
carcere. Quindi si fece condurre il secondo figlio, di nome Felice.
Mentre Publio lo esortava a immolare agli idoli, il giovane dichiarò
con fermezza: «Uno solo è il Dio che adoriamo, a cui offriamo il
sacrificio della pia devozione. Guardati dal credere che io o
qualcuno dei miei fratelli deviamo dalla strada dell’amore di
Cristo. Ci si preparino pure le frustate, pendano sul nostro capo
decisioni di sangue. La nostra fede non può essere né vinta né
cambiata! ».
Mandato via anche questo, Publio si fece condurre il terzo figlio,
di nome Filippo. Quando gli disse: «L’imperatore (Marco Aurelio)
Antonino, signore nostro, vi ha comandato d’immolare agli dèi
onnipotenti», Filippo rispose: «Codesti non sono né dèi né
onnipotenti, ma simulacri vani, miseri e insensibili e quelli che
vorranno sacrificare loro correranno eterno pericolo».
Fatto allontanare Filippo, Publio si fece condurre il
quarto figlio, di nome Silvano, a cui disse così: «Come vedo,
d’accordo con la vostra pessima madre, avete preso la decisione
d’incorrere tutti nella condanna, disprezzando gli ordini dei
sovrani».
Rispose Silvano: «Se temeremo la morte temporale, incorreremo nel
supplizio eterno. Ma poiché sappiamo bene quali premi siano
riservati ai giusti e quale pena sia stabilita per i peccatori,
tranquillamente disprezziamo la legge umana per rispettare i
precetti del Signore. Chi sprezza gli idoli, infatti, e obbedisce al
Dio onnipotente, troverà la vita eterna, ma chi adora i demoni andrà
con essi alla perdizione e al fuoco eterno».
Fatto allontanare Silvano, si fece venire vicino Alessandro, al
quale disse: «Se non sarai ribelle e farai ciò che più desidera il
nostro sovrano, si avrà riguardo per la tua età e per la tua
esistenza che non è ancora uscita dall’infanzia. Quindi, sacrifica
agli dèi, per poter diventare amico degli Augusti e conservare la
vita e il loro favore».
Rispose Alessandro: «Io sono servo di Cristo. Lo confesso con le
labbra, lo conservo nel cuore, lo adoro incessantemente. L’età
tenera che tu vedi in me ha la saggezza degli anziani, quando venera
il Dio unico. Invece i tuoi dèi con i loro adoratori saranno
condannati alla morte eterna».
Fatto allontanare Alessandro, fece venire a sé il sesto, Vitale, a
cui disse: «Forse, almeno tu desideri vivere e non andare incontro
alla morte». Rispose Vitale: «Chi desidera vivere meglio? Chi adora
il vero Dio o chi desidera avere propizio il demonio?».
Disse Publio: «E chi è il demonio?». Rispose Vitale: «Tutti gli dèi
dei gentili sono demoni e tutti coloro che li adorano»[7].
Fatto andar via anche questo, fece entrare il settimo, Marziale, e
gli disse: «Crudeli contro voi stessi per vostra volontà,
disprezzate le leggi degli Augusti e vi ostinate a rimanere nel
vostro danno».
Rispose Marziale: «O se sapessi quali pene sono destinate ai cultori
degli dèi! Ma Iddio attende ancora a mostrare la sua collera contro
di voi e contro i vostri idoli. Infatti, tutti coloro che non
riconoscono Cristo come vero Dio saranno mandati al fuoco eterno».
Allora Publio fece allontanare anche il settimo dei fratelli e spedì
all’imperatore una relazione scritta del processo[8].
IV -
L’imperatore li inviò a giudici diversi, per farli morire sotto
diversi supplizi. Uno dei giudici fece morire il primo dei fratelli
con fruste di piombo. Un altro uccise a furia di bastonate il
secondo e il terzo, un altro ancora scaraventò il quarto da un
precipizio. Un altro dei giudici fece eseguire la pena capitale
contro il quinto, il sesto e il settimo, un altro infine fece
decapitare la loro madre. Così, morti per diversi supplizi, furono
tutti vincitori e martiri di Cristo e, trionfando con la madre,
volarono in cielo a ricevere i premi che avevano meritato. Essi che,
per amore di Dio, avevano disprezzato le minacce degli uomini, le
pene e i tormenti, divennero nel regno dei cieli amici di Cristo,
che, con il Padre e lo Spirito santo, vive e regna nei secoli dei
secoli. Amen.
[1]
Martirio
di santa Felicita, c. I.
[2]
Martirio
di santa Felicita, c. III.
[3] Oltre al
contegno eroico dei giovani e della loro madre, un
importante elemento di affinità tra il presente racconto e
quello biblico è il frequente accenno alla vita che attende
l’anima dopo la morte. La fiducia nell’immortalità è un dato
acquisito dalla fede cristiana, ma nella storia del popolo
ebraico non lo era stato fin dalle origini ed aveva
cominciato ad assumere consistenza proprio all’epoca dei Maccabei.
[4] Così la
Depositio Martyrum. Il martirologio geronimiano
ricorda Felicita il 23 novembre e i figli in date diverse.
[5] Un
affresco (V-VI sec) scoperto dal De Rossi al Colle Oppio
alla fine del 1800, presso un antico oratorio ritenuto la
casa o il carcere dei martiri, riproduceva la santa (Felicitas
Cultrix Romanarum) circondata dai figli, mentre il Salvatore
le regge la corona sul capo dall’alto; non si sa però se
esso derivi dagli atti del martirio o da un documento
posteriore.
[6] Publio
Salvio Giuliano, successo a Urbico nel 162, giureconsulto
che resse la prefettura di Roma a cavallo tra l’impero di
Antonino Pio (138-161) nel 161 e quello di M. Aurelio e L.
Vero nel 161-162.
[7] Per i
cristiani antichi gli dèi pagani sono veri spiriti del male
e non immagini imperfette di una verità intravista, sia pure
confusamente. Tale motivo viene spesso ripreso negli atti
dei martiri.
[8] Esempio
di scrupolo professionale non raro tra i funzionari
dell’impero, che solo una tradizione edificante, ma
superficiale, immagina tutti accaniti nel tormentare i
cristiani.