domenica 21 dicembre 2025

Il monaco del deserto e l'editto dell'Imperatore Valente contro i monaci egiziani



Nel capitolo 44 della Vita di Antonio – quella che gli americani chiamerebbero the blueprint for the monk prototype – Atanasio (vescovo di Alessandria) descrive brevemente e con un certo trasporto gli effetti dell’esempio e degli insegnamenti di Antonio (al capitolo precedente si è appena conclusa la relazione della «grande catechesi ai monaci»), che si era ritirato nel deserto per condurre una vita di ascesi e preghiera(1) 

Le parole di Antonio colpiscono tutti: i buoni gioiscono e avanzano nel bene, i manchevoli ne traggono conforto per non disperare e «altri ancora mutavano convinzioni» (virtù, questa, tra parentesi, poco sottolineata rispetto, ad esempio, a quella taumaturgica; e quanto mai invece notevole, soprattutto oggidì: quando abbiamo visto qualcuno, di recente, cambiare opinione in seguito alle parole di un altro?). Tutti si sentono pronti per affrontare le insidie e le tentazioni dei demoni e così, come Atanasio aveva proclamato in precedenza, «il deserto divenne una città di monaci che avevano abbandonato i loro beni e si erano iscritti nella cittadinanza dei cieli»(2)  Nei loro insediamenti lontani da città e villaggi i nuovi monaci leggono le Scritture, cantano i Salmi, digiunano, pregano, lavorano per sostenersi e per fare l’elemosina, vivono «in amore e concordia vicendevole».

Una regione solitaria e selvaggia, grazie a questa migrazione, diventa un tempio a cielo aperto, consacrato al servizio di Dio e della giustizia, tanto che, come recita la versione latina, «nemo enim erat ibi qui iniuste tractabatur, neque laesus exigentibus tributa», cioè, dal greco, «non c’era là nessuno che patisse ingiustizia o si lamentasse degli agenti del fisco»… Eh già.


Certo, l’assoluta povertà monastica metteva al riparo anche dalle tasse… Commentando proprio quel passo della Vita di Antonio, Pier Cesare Bori scrive: «Probabilmente però, accanto alle motivazioni ideologiche, esistono delle spinte sociali ben concrete all’«anacoresi» (che traspaiono anche dall’immagine paradisiaca sopra evocata: il ricordo dell’esattore!); il fenomeno dell’anacoresi è anzitutto la fuga, la diserzione da una società ingiusta e opprimente: “Fuggiremo dove possiamo vivere da uomini liberi!” dice un’iscrizione egiziana del tempo, già all’inizio del secolo III.

«Il monachesimo si configura così più che mai in questo caso come progetto di una società altra dal presente.»(3) Sempre pratici, i monaci, sin dal principio.


______


1-Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, introduzione, traduzione e note di L. Cremaschi, Paoline 202310, p. 131-32. Alla studiosa tante volte citata in questo blog devo anche il suggerimento del saggio di Pier Cesare Bori, menzionato più avanti. Da ricordare altresì la Vita di Antonio, introduzione di Ch. Mohrmann, testo critico e commento a cura di G.J.M. Bartelink, traduzione di P. Citati e S. Lilla, (Vite dei santi; I) Fondazione Valla / Mondadori 1974.

2-La versione latina dice: «Il deserto si riempì di eremiti, uomini che erano usciti dalle proprie case e avevano abbracciato una vita celeste».

3- Pier Cesare Bori, Chiesa primitiva. L’immagine della comunità delle origini (Atti 2, 42-47; 4, 32-37) nella storia della chiesa antica, Paideia 1974, p. 154. 

Da parte sua, Lisa Cremaschi cita un editto del 370 dell’imperatore Valente che ordina di «ricercare i monaci egiziani considerandoli dei disertori ritiratisi nel deserto, “con il pretesto della religione”, per fuggire gli obblighi della società civile». A tutti gli effetti un WANTED – EGYPTIANS MONKS.


https://monachesimoduepuntozero.com/2025/12/21/benefici-fiscali-per-gli-anacoreti/

venerdì 19 dicembre 2025

la leggenda buddista della “bambola di sale”




Mi viene in mente la leggenda buddista della “bambola di sale” che doveva capire cosa fosse il mare. A questa domanda il mare la invita a toccarlo e sciogliendole le dita le spiega che ha offerto qualcosa per iniziare a capire. La bambola decide di continuare e più avanzava più si sentiva impoverita di una parte di sé e più aveva la sensazione di capire meglio. Ma soltanto quando l’ultima onda inghiotti ciò che restava di lei, nell’istante in cui scompariva, perduta nell’onda che la travolgeva comprese finalmente cosa fosse il mare. – Sono io! – esclamò, e questo fu il suo ultimo sussurro.

Virginia Salles


https://www.facebook.com/oikumen/posts/pfbid0GyExBCCsexYb865PyHY8kYuLvPQjSDUu2LL1rE782DoBeB8zdfhiD8GCyNt1xiKJl

martedì 16 dicembre 2025

Due monaci zen e una giovane donna.



Due monaci zen camminano verso il monastero. Arrivano a un fiume. Sulla riva, una giovane donna piange. Il guado è troppo profondo, ha paura di attraversare. Il monaco anziano, senza dire nulla, la prende in braccio e la porta dall’altra parte. La posa. Lei lo ringrazia. I monaci riprendono il cammino.

Passano due ore. Tre. Cinque. Il monaco giovane ribolle. Alla fine esplode: “Come hai potuto?! Hai toccato una donna! Hai infranto i voti! L’hai presa in braccio!”

Il monaco anziano si ferma. Lo guarda con calma: “Io l’ho posata sulla riva del fiume, cinque ore fa. Tu la stai ancora portando.”

giovedì 20 novembre 2025

Columba di Iona e una gru irlandese



Un giorno, sempre a Iona, Columba chiama un fratello e gli dice: «La mattina del terzo giorno da questa data devi sederti e aspettare sulla costa dal lato occidentale di quest’isola, perché una gru, che è straniera in queste regioni settentrionali ed è stata spinta qui dai venti, verrà, stanca e affaticata, dopo l’ora nona, e si coricherà davanti a te sulla spiaggia, completamente esausta». Pertanto Columba incarica il monaco di trovare un ricovero adatto, dove l’animale (che il santo sa essere irlandese, conterraneo), nutrito, possa riprendersi e poi ripartire. Naturalmente, «come il santo aveva predetto, così avvenne». La gru arriva, stremata, viene raccolta («dolcemente»), curata, sfamata; infine si riprende e il terzo giorno (!) si alza in volo e «diresse la sua corsa attraverso il mare fino all’Irlanda, andando sempre dritto, come si vola in una giornata tranquilla».

domenica 31 agosto 2025

Fabrizio De André -Fiume Sand Creek



Questo brano fa parte dell'album "Fabrizio De Andrè", pubblicato nel 1981.

La canzone narra del massacro di Sand Creek (chiamato anche massacro di Chivington o battaglia di Sand Creek) che si verificò il 29 novembre 1864, nell'ambito dei più vasti eventi della guerra del Colorado e delle guerre indiane negli Stati Uniti d'America.

Un accampamento di circa 600 nativi americani membri delle tribù Cheyenne meridionali e Arapaho, situato in un'ansa del fiume Big Sandy Creek (oggi nella Contea di Kiowa nella parte orientale dello Stato del Colorado), fu attaccato da 700 soldati della milizia statale comandati dal colonnello John Chivington, a dispetto dei vari trattati di pace firmati dai capi tribù locali con il governo statunitense. Visto lo scarso numero di guerrieri armati e capaci di difendersi presenti nel campo, l'attacco dei soldati si tradusse in un massacro indiscriminato di donne e bambini, con un numero di morti tra i nativi stimato tra le 125 e le 175 vittime (oltre ad altri 24 morti e 52 feriti tra gli stessi militari attaccanti); come riferito da molti testimoni oculari, i corpi dei nativi uccisi furono scalpati e in molti casi ripetutamente mutilati da parte dei soldati.

Inizialmente dipinti come una "vittoriosa battaglia" contro nativi ribelli, i fatti di Sand Creek furono poi oggetto di varie investigazioni da parte dell'Esercito statunitense e del Congresso, le quali espressero un severo giudizio sull'operato di Chivington e dei suoi uomini; a dispetto di ciò, tuttavia, nessuna misura punitiva fu presa nei confronti di alcuno dei partecipanti al massacro. I fatti di Sand Creek provocarono attacchi di rappresaglia da parte dei nativi contro gli insediamenti degli invasori europei, nonché un esodo di massa delle tribù native dal Colorado orientale.

***

Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura

sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura

fu un generale di vent'anni

occhi turchini e giacca uguale

fu un generale di vent'anni

figlio d'un temporale

c'è un dollaro d'argento sul fondo del Sand Creek.


I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte

e quella musica distante diventò sempre più forte

chiusi gli occhi per tre volte

mi ritrovai ancora lì

chiesi a mio nonno è solo un sogno

mio nonno disse sì

a volte i pesci cantano sul fondo del Sand Creek


Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso

il lampo in un orecchio nell'altro il paradiso

le lacrime più piccole

le lacrime più grosse

quando l'albero della neve

fiorì di stelle rosse

ora i bambini dormono nell letto del Sand Creek


Quando il sole alzò la testa tra le spalle della notte

c'erano solo cani e fumo e tende capovolte

tirai una freccia in cielo

per farlo respirare

tirai una freccia al vento

per farlo sanguinare

la terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek


Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura

sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura

fu un generale di vent'anni

occhi turchini e giacca uguale

fu un generale di vent'anni

figlio d'un temporale

ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek.


https://www.youtube.com/watch?v=PXhYK4j2d84&t=1s



All'alba del 29 novembre 1864, il colonnello Chivington fece circondare l'accampamento e, nonostante gli accordi presi in precedenza con gli indiani, comandò l'attacco contro una popolazione inerme che quasi niente fece per reagire. Gli uomini vennero scalpati e orrendamente mutilati, i bambini usati per un macabro tiro al bersaglio, le donne oltraggiate e uccise.


Si racconta inoltre che, appena uditi i colpi dei primi proiettili, il capo della tribù issò una bandiera americana e un vessillo bianco per segnalare agli aggressori che gli indiani non intendevano difendersi. Tale gesto venne completamente ignorato da Chivington e dai suoi uomini che continuarono il massacro.


Questo infame avvenimento costrinse il Congresso ad aprire una inchiesta (1865). I colpevoli non furono però mai puniti e la strage non venne ufficialmente condannata. L'episodio innescò dodici anni di Guerre Indiane che ebbero il loro culmine con l'uccisione del generale George A. Custer a Little Big Horn.


Dopo 136 anni, nel 2000, il congresso americano si scusò con gli indiani per il terribile massacro. Sul luogo della strage verrà posta una lapide per commemorare le vittime.


https://recensiamomusica.com/canzone-per-te-dentro-il-testo-di-fiume-sand-creek-di-fabrizio-de-andre/

sabato 30 agosto 2025

Giorgio Gaber. Far finta di essere sani



Vivere, non riesco a vivere

ma la mente mi autorizza a credere

che una storia mia, positiva o no

è qualcosa che sta dentro la realtà.


Nel dubbio mi compro una moto

telaio e manubrio cromato

con tanti pistoni, bottoni e accessori più strani

far finta di essere sani.


Far finta di essere insieme a una donna normale

che riesce anche ad esser fedele

comprando sottane, collane, creme per mani

far finta di essere sani.

Far finta di essere...



Liberi, sentirsi liberi

forse per un attimo è possibile

ma che senso ha se è cosciente in me

la misura della mia inutilità.


Per ora rimando il suicidio

e faccio un gruppo di studio

le masse, la lotta di classe, i testi gramsciani

far finta di essere sani.


Far finta di essere un uomo con tanta energia

che va a realizzarsi in India o in Turchia

il suo salvataggio è un viaggio in luoghi lontani

far finta di essere sani. Far finta di essere...


Vanno, tutte le coppie vanno

vanno la mano nella mano

vanno, anche le cose vanno

vanno, migliorano piano piano

le fabbriche, gli ospedali

le autostrade, gli asili comunali

e vedo bambini cantare

in fila li portano al mare

non sanno se ridere o piangere

batton le mani.

Far finta di essere sani.

Far finta di essere sani.

Far finta di essere sani


https://www.youtube.com/watch?v=-cGMRHkv458


https://www.giorgiogaber.org/archivio/index.php-44.htm?page=s_far-finta-di-essere-sani

martedì 3 giugno 2025

“Cuore in cellla” un libro che racconta una storia dove tante possono specchiarsi ma anche tanti uomini veri

 



La prima volta che entri in carcere non la dimentichi più…


Un ragazzo si è tagliato le braccia con una lametta.

Non per morire.

Per sentirsi.

Perché a un certo punto, lì dentro, anche il dolore diventa un modo per ricordarti che sei vivo.


Le ferite erano linee rosse sottili, parallele, precise.

Come se avesse scritto qualcosa.

Un codice segreto inciso sulla pelle.

Un messaggio al mondo:

“Guardami.”


Lo guardo.

Ha diciotto anni.

Nessuno viene a trovarlo. Nessuno lo chiama.

Ha una madre tossica, un padre in carcere.

Ogni tanto ride, ma solo con i denti. Gli occhi sono vuoti.

Dice di star bene, ma nel frattempo nasconde pezzi di vetro sotto al materasso.

Farfuglia qualcosa in arabo, non sa che lo capisco.

Conosco un po’ l’arabo perché me lo hanno insegnato i miei amici alle scalette di via Marsala,

ma faccio finta di non capire.


E mentre un altro parla, io non respiro.

Non posso.

Perché in quei racconti non c’è aria.

Solo umidità e ruggine.



Il primo giorno che entro in carcere non è l’inizio di un progetto.

È un crollo.

Un’invasione.

È come se avessi scavalcato un confine invisibile tra i vivi e i dimenticati.

E lo sanno bene tutte le donne, le madri, le figlie e le sorelle che vanno ai colloqui.


Questa non è la realtà patinata di Mare Fuori che ci propinano le serie TV.

Questa è la realtà cruda che ho vissuto lì dentro.


I detenuti, quelli veri, non sono come nei film.

Non sono tutti tatuati, palestrati, minacciosi.

Ce n’è uno magrissimo, con un libro di Bukowski.

Uno con la kefiah legata al braccio.

Uno che parla con le formiche.


Poi ci sono quelli che dettano legge.

Ma in silenzio.

Basta un sopracciglio alzato per far abbassare lo sguardo agli altri.


——


Avevo creato questo progetto di volontariato in carcere per rivedere Hamza.

Un corso di rap, una proposta ufficiale, notti passate a scrivere piani didattici per i detenuti.

Tutto solo per poter rivedere il mio migliore amico.

L’unico uomo che, nella mia vita, mi abbia mai portato rispetto senza chiedere niente in cambio.


Ma quando entro… Hamza non c’è.

Non lo trovo.

Non lo nominano.

E io non oso chiedere.

Perché in carcere il silenzio è la forma più diffusa di protezione.



Il primo cancello si apre come una porta all’inferno.

Un gemito di ferro.

Una resa.

E io non sono più una libera.

Sono un corpo in prestito.


Lì dentro la luce non scalda.

Ti brucia.

È bianca, sparata in faccia.

Ti espone.

Ti ispeziona.

Come se anche il neon volesse sapere da che parte stai.


Mi aspettavo le sbarre, i muri scrostati, i passi lenti.

Ma il carcere non è una scenografia. È un ecosistema.

Un mondo parallelo in cui tutto si contrae: lo spazio, il tempo, la dignità.


I corridoi odorano di candeggina, urina, paura.

Sudore vecchio.

Sogni rotti.


Chi lavora in carcere impara presto a spegnere le parole,

come si spengono le sigarette nei cessi rotti.


Cammino.

Conta dei passi: 37.

Sono i primi metri di mondo che non mi appartengono.

Dietro di me, il vuoto.

Davanti a me, un’umanità compressa come tabacco da contrabbando.


La guardia mi guarda storto.

«Se un detenuto ti fissa, non ricambiare lo sguardo.

E non dare pile a nessuno, se le ingoiano per andare in ospedale.»


Sorrido lo stesso a un ragazzo che passa con le manette, la guardia e il suo avvocato affianco.

Perché nella vita mi è stato tolto tutto, ma non la voglia di sorridere.

Lui ricambia.


È come se avessi acceso una sigaretta in una stanza piena di gas.


Mi chiamano “Miss”.

Ma mi danno del lei, i detenuti.

Per rispetto.

E io li chiamo tutti “bro”, perché è per un bro che sono qui.

Ed in quel momento si sciolgono, perché sentono che forse, lì dentro, c’è una sorella.


Mi chiedono da dove vengo.

Non vogliono sapere la città.

Vogliono la mia storia.

Perché in carcere o sei vera, o sei fottuta.


E io sono vera.

Vera come la rabbia che sento quando vedo uno di loro accarezzare una foto accartocciata.

Vera come le rime scritte sui fogli strappati dal libretto delle istruzioni della lavatrice.



E allora la vedi, la verità.


Uno ha i denti mangiati dal metadone.

Uno si è cucito la bocca con ago e filo da cucito.

Uno dorme con le scarpe perché ha paura che lo sveglino a calci.

Uno mi mostra la foto del figlio, ma non sa se è ancora vivo.


Tra di loro c’è un assassino.

Me lo dice lui, senza mezzi termini.

Gli altri lo evitano, lo temono, è evidente.

Il mio compito lì non è giudicare — lo so —

ma una parte di me in quel momento si incrina.

Crepe sottili, invisibili agli altri, ma profonde.

Dicono che dalle crepe entri la luce.

Spero arrivi presto.


I suoi occhi hanno qualcosa in comune con quelli di mio marito.

Non il colore.

Ma il modo in cui guardano.

Come se ti stessero sempre sfidando a dimostrare il contrario.

Mi destabilizza.


Eppure è uno dei più coinvolti al corso.

È anche uno dei più talentuosi.

Scrive rime come se gli servissero per respirare.


Poi ne arriva un altro.

E lui… non è come gli altri.

Si fa chiamare “Double F”.

Succede qualcosa al mio cuore.

Una vibrazione, una risonanza profonda, inspiegabile.

È come se lo conoscessi da sempre.

E allo stesso tempo… non so nulla di lui.


Arriva Ava.

Maglietta dell’Inter, sorriso gigante, due occhi blu che sembrano il mare quando il mare è felice.

Si affaccia nella stanza con l’aria di uno che ha sbagliato pianeta.

“È qui il corso di ballo?”

Lo guardo per un attimo. Ha la faccia da chi non si arrende mai, nemmeno davanti a un equivoco.

“No, fratè, qui insegno rap.”

Lui ci pensa mezzo secondo. Poi sorride di nuovo.

“Mi va bene uguale.”

Scoppio a ridere. “Ok bro, sei dei nostri.”


E tu pensavi di insegnargli a fare rap.

Ma loro ti insegnano la fame.

Quella di voce.

Di contatto.

Di speranza.



Il carcere non rieduca.

Il carcere sospende.

Ferma la vita come un respiro trattenuto troppo a lungo.

E poi ti lascia lì, a marcire nel tempo.

Il carcere isola.

Incatena.

Deforma.


Non ci sono psicologi per tutti.

Non ci sono progetti per tutti.

Non ci sono possibilità per chi non ha santi né avvocati.


Il carcere è l’arte della sopravvivenza quotidiana.

Togli a un uomo tutto e ti accorgerai che anche la follia ha dei rituali.


Ti spoglia di tutto.

Poi ti specchia.

E ti mostra la versione di te che il mondo ha scartato.


Il rap?

Il rap è solo un pretesto.

Per parlare.

Per piangere senza piangere.

Per dire “ci sono”, anche se nessuno ti sente.


Ti toglie i colori, i rumori, gli odori del mondo.

E ti restituisce versioni peggiori di te stesso.

Più arrabbiate.

Più violente.

Più sole.


Li dentro il tempo è un animale zoppo che si trascina.

Non scorre.

Si ripete.

Uguale.

Ogni ora. Ogni giorno.

Ogni stagione che non puoi sentire sulla pelle.


C’è chi studia.

Per restare sano.

C’è chi scrive lettere che non spedirà mai.

C’è chi si masturba per dimenticare.

Chi si buca per dormire.

Chi fa palestra per non pensare.

Chi canta per sopravvivere.


La mia aula è una stanza spoglia.

Un tavolo.

Delle sedie.

E le storie che portano.

Storie fatte di rapine, cocaina, madri che non ti rispondono più al telefono.

Storie senza finale.

O con un finale già scritto, in fondo al codice penale.



Uno mi dice:

«Miss, qui dentro o diventi un leone, o diventi carne.»

Lo guardo.

Ha gli occhi vivi.

Ma pieni di graffi.


«Io sono qui per i leoni», gli dico.

«E per quelli che non vogliono diventare carne.»


Un altro si avvicina.

«Miss, hai delle pile?»

«Le vuoi per ingoiarle o per ascoltare musica?»

«Giuro su Allah, per la musica.»

Annuisco.

Giuro anch’io.

Su quello che ho dentro.

Su un bisogno disperato di cambiare almeno una virgola in queste vite sgrammaticate.



Quella sera torno a casa con gli occhi che bruciano.

Non di pianto.

Di verità.

Perché là dentro ho visto che chi sbaglia paga.

Ma non tutti hanno fatto in tempo a imparare a non sbagliare.


Pensavo di essere entrata per rivedere Hamza.

E invece ho visto il Paese.

Nudo.

Marcio.

Segreto.


Il carcere non è il fondo.

È il ventre.

È dove lo Stato nasconde ciò che non vuole vedere.

È la pancia nera dell’Italia ben vestita.

Dove i mostri non sono quelli che ti raccontano nei telegiornali.

Ma quelli che abbiamo abbandonato da bambini.

E che ora si sono fatti grandi.

Dietro le sbarre.

Con la rabbia tra i denti.

E ancora, un disperato, disperatissimo bisogno d’amore.


Hamza non l’ho visto.

Ma ho visto molto di più.


Niente manette.

Ma catene, sì. Le portano nel cuore.

E io pure.

Siamo più simili di quanto sembri,

solo che le mie catene hanno le chiavi nel cassetto della cucina.


Anche io vivo in una gabbia.

La mia ha lenzuola pulite e vista mare.

Niente sbarre alle finestre.

Ma abbastanza spazio per sentirsi intrappolata lo stesso con un comandante che chiamo con il nome di marito.


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I PADRI/LE MADRI DELLA CHIESA ..meditazioni